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Parentopoli alle Nazioni Unite Fanno carriera solo figli e cognati

IMBARAZZO In una mail la prova dei trucchi per far vincere i parenti degli alti dirigenti

Qualcuno dirà che un italiano che accusa gli altri di nepotismo è un paradosso, è l’uomo che morde il cane. Il bello è che l’italiano in questione, furente perché il suo lavoro all’Onu gli è stato scippato per darlo alla figlia di un pezzo grosso, l’ha morso davvero un uomo: a giugno scorso negli uffici dell’Undp, l’agenzia che si occupa di cooperazione allo sviluppo, quelli che dispensano aiuti al Terzo mondo, aiutando a quanto pare anche la propria famiglia. Così bene che i nostri baroni universitari avrebbero di che imparare.
Ma partiamo dal morso che ha messo in subbuglio il Palazzo di Vetro. Nicola Baroncini, ex bancario lombardo da 5 anni sotto contratto all’Onu, lavora nell’ufficio di Ligia Elizondo, vicedirettore dell’Undp per l’area Asia Pacifico. Un incarico a tempo, ma Baroncini pensa di poter aspirare a quel posto. Almeno finché, riordinando la posta elettronica del suo capo, gli capita sott’occhio un messaggio di Alan Doss, potente sottosegretario da una vita all’Onu. Nella mail, Doss dice a Elizondo che «Becky è entusiasta di venire a lavorare da te». Una vera e propria profezia, considerando che è il 20 aprile, e il posto da assistente speciale verrà bandito solo a metà maggio. Doss chiede «un po’ di flessibilità sui tempi» per favorire «un vecchio servitore dell’Undp». L’intoppo è la fastidiosa regola anti-nepotismo dell’Onu che impedisce l’assunzione di figli e coniugi in incarichi in cui sarebbero coordinati dall’altro coniuge o da genitori. Ma Doss sta per passare a un prestigioso incarico in Congo lasciando libero il passo alla figlia. La selezione non riserva sorprese. C’è pure il classico candidato civetta che rinuncia per un altro posto. Rebecca Doss entra in servizio il 1° luglio, stesso giorno in cui il padre lascia il posto.
Quando Baroncini va dai superiori per protestare sbandierando la mail di Doss finisce chiuso in una stanza dove viene tenuto una mattinata intera. E quando chiede energicamente di parlare col console italiano, arrivano le guardie. «Mi hanno spruzzato lo spray al peperoncino», racconta Baroncini. E lui, tentando di difendersi, azzanna una delle guardie. Al processo in corso gli viene offerto di patteggiare, ma lui rifiuta: «Voglio che si ristabilisca la verità». Una bella grana per l’Onu, questo testardo italiano, che ha un cruccio: «Voglio solo la verità su come vanno le cose all’Onu: le regole anti-nepotismo vengono sistematicamente aggirate».
Ha ragione Baroncini? Dal Palazzo di Vetro, che si va rapidamente opacizzando quando si toccano questioni simili, non negano, si limitano a dire che «stanno riesaminando il caso».
Una cosa è certa: le Nazioni unite sono unite soprattutto da parentele. E se è vero che il pesce puzza dalla testa, il caso più clamoroso resta quello di Kofi Annan, l’allora segretario generale caduto nel discredito per lo scandalo «Oil for food», quello delle forniture all’Irak che sarebbero state «guidate» verso aziende amiche dal figlio di Kofi, Kojo Annan. Lo scandalo fu enorme, ma al di là delle ipotesi di mazzetta, c’è un aspetto poco dibattuto, almeno in Italia: ma possibile che le forniture umanitarie all’Irak assediato dalle sanzioni dovessero essere gestite dal figlio del segretario generale? E non è affatto un caso isolato. Perché Annan restò per un po’ al suo posto, anche se col significativo nomignolo di «anatra azzoppata», ma un altro funzionario Onu, Alexander Yakovlev, lasciò il proprio posto di corsa: la commissione d’inchiesta lo accusò di aver intercesso per far assumere il figlio presso una delle ditte fornitrici del programma «Oil for food».
Naturalmente, nella successiva campagna elettorale per la nomina del successore di Annan il tema della parentopoli diventa caldo. Un candidato arriva a denunciarlo apertamente: «È necessario sradicare il nepotismo di cui siamo stati giustamente accusati», tuona l’indiano Shashi Tharoor. E altrettanto naturalmente non viene eletto.
La scelta, come si sa, è caduta su Ban Ki Moon. E una cosa è certa: il politico sudcoreano non può fare della lotta al nepotismo una propria bandiera. Come potrebbe, visto che sua figlia Ban Hyun Hee lavora per un’altra agenzia Onu, l’Unicef, l’organizzazione che aiuta i bambini (inclusi quelli dei propri dipendenti, pur se cresciutelli)? E, per non farsi mancare nulla, c’è pure il genero, Siddarth Chatterjee. Anche lui lavorava agli uffici Unicef di Nairobi, ma dal 2007, da quando Ban Ki Moon è diventato segretario, che coincidenza, la carriera di Chatterjee è decollata come il jet del segretario generale. Prima viene nominato capo dello staff Onu a Bagdad, uno dei teatri più importanti di impegno delle Nazioni unite. In seguito Siddarth stupisce il mondo battendo 120 candidati alla guida di una più comoda struttura Onu in Danimarca che gestisce appalti miliardari, l’Unops. E siccome i colpi di fortuna non vengono da soli, subito dopo l’Unicef trasferisce sua moglie, nonché figlia del molto onorevole Ban Ki Moon. Dove? Ma in Danimarca, naturalmente.


Che strano posto l’Onu, si parlano mille lingue, ma «Tengo famiglia» lo dicono tutti allo stesso modo.

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