
Quando gli dissero che l'Imperatore Hirohito aveva parlato alla radio, annunciando al suo popolo che la guerra era persa, e chiedendogli di «sopportare l'insopportabile», Hiroo Onoda credette a un trucco degli americani. «L'Imperatore non parla alla radio», disse semplicemente al suo interlocutore. Era vero. Nessuno, fino a quel ferragosto del 1945, aveva mai sentito la voce dell'imperatore in pubblico. Ma quel che sembrava davvero impossibile, a uno come il tenente Onoda, era che il Giappone avesse davvero firmato la capitolazione. Nessuno gli aveva detto delle bombe atomiche, di Hiroshima, di Nagasaki. L'«ultimo giapponese», come poi venne chiamato, veniva da un altro mondo, da un'altra epoca, da un'altra cultura. Un mondo dove parole come capitolazione, sconfitta, non erano neppure contemplate nel molto onorevole galateo militare dei samurai, alla cui schiatta riteneva di appartenere. Gli ci vollero 29 anni ventinove anni di resistenza nella giungla filippina- per accettare l'evidenza. Ma ad arrendersi, nel marzo del 1974, si decise solo quando l'Alto Comando, da Tokyo, spedì nella giungla dell'isola di Lubang, a recuperarlo, il suo vecchio comandante, l'uomo che gli aveva ordinato di resistere. Ieri, dopo altri quarant'anni di resistenza, Hiroo Onoda si è infine arreso anche alla vita. Aveva 91 anni.
Le storie di Robinson Crusoe e di Indiana Jones, disse una volta, commentando alla televisione un documentario sulla guerra nel Pacifico, lo avevano fatto sempre sorridere. «Quando si fa sul serio -diceva- è un po' diverso». «L'ultimo ordine che ricevetti fu di condurre imboscate e azioni di guerriglia», raccontò in un'intervista. Dopo di allora, dopo quell'ordine, mai più nulla. Con lui erano rimasti tre uomini. Si attestarono, fedeli alla consegna e a un mito che considera la resa la peggiore delle sciagure. Il tenente Onoda e i suoi condussero la loro personalissima guerra di guerriglia contro i «collaborazionisti» filippini adottando la classica regola del mordi e fuggi. Onoda e i suoi non erano gli unici. Nelle isole del Pacifico altre piccole unità erano rimaste tagliate fuori, continuando nella loro eroica resistenza. Per convincerli a desistere, per spiegare a tutti gli Onoda che la guerra era finita, vennero lanciati dei manifestini dagli aerei, ma Onoda continuò a scuotere la testa. «Ne trovammo più d'uno. Ma c'erano degli errori, delle incongruenze. Pensammo che fosse una strategia degli americani». Passarono i mesi. Passarono gli anni. Uno degli uomini di Onoda fu catturato nel 1950. Altri due morirono in combattimento, l'ultimo nel 1972. Ma lui resisteva, indomito, nella sua guerra privata. Magro, lo sguardo allucinato, la barba lunga, indosso ancora la vecchia giubba da soldato sdrucita e rattoppata: quando emerse dalla giungla, convinto dal suo comandante a cedere le armi, si capì capimmo qui, dalle nostre parti - che avevamo a che fare con lo stereotipo di un soldato molto diverso dal nostro, pronto a tirarsi indietro alla prima mala parata con la scusa che magari può venir buono la prossima volta. Onoda chiese di fare le cose perbene, secondo le vecchie regole. Andò fino a Manila a consegnare la sua spada al presidente delle Filippine, salutò la bandiera e rientrò in patria, dove venne accolto da eroe. Poco dopo emigrò in Brasile, dove mise in piedi una fattoria riscuotendo il successo che l'ingegnosità e la laboriosità del suo popolo hanno saputo guadagnarsi sempre e dovunque.
Poi rientrò in Giappone, dove tenne dei corsi di sopravvivenza. Ieri, dopo una lunga e onorevole vita, Hiroo Onoda ha preso definitivamente congedo, salutato con commozione da un Paese così moderno hanno scoperto - da avere ancora bisogno di eroi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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