Il sogno americano di Kennedy "Hitler? Era una vera leggenda"

I diari dei suoi vent'anni rivelano una vera ammirazione per i nazi Ma era troppo giovane per capire

Il sogno americano di Kennedy "Hitler? Era una vera leggenda"

John Fitzgerald Kennedy aveva vent'anni quando, nel 1937, compì un lungo viaggio in Europa. Suo padre Joseph era ambasciatore degli Stati Uniti a Londra ma, anche senza questo dettaglio, era normale che un giovane, ricco studente americano compisse quel viaggio di formazione che un tempo si chiamava gran tour. Sembra meno normale che quel giovane - destinato a divenire, ventiquattro anni dopo, il più amato presidente degli Stati Uniti - abbia scritto parole di simpatia, quasi di elogio, per il fascismo, la Germania nazista, Hitler.
Lo ha scoperto, non sappiamo ancora come, lo storico tedesco Oliver Lubrich, esperto di viaggiatori illustri e viaggiatore egli stesso. Oggi insegna letteratura tedesca comparata a Berna, ma ha già insegnato, fra l'altro, in Messico, Costa Rica, Brasile. E il suo libro più importante e tradotto (ma non in Italia) riguarda gli intellettuali di tutto il mondo che hanno compiuto un viaggio in Germania durante il periodo hitleriano.
Il 3 agosto 1937, mentre girava l'Italia da turista, JFK annotava nel suo diario, a Milano, di essere «giunto alla conclusione che il fascismo è la cosa giusta per la Germania e per l'Italia, il comunismo per la Russia e la democrazia per l'America e l'Inghilterra. Che sono i mali del fascismo al confronto del comunismo?». Si tratta di considerazioni gravi, per le quali bisognerà considerare il contesto e avere maggiori informazioni prima di giudicarle. Ma si può facilmente intuirne il senso profondo: Stati Uniti e Gran Bretagna venivano considerati, dal futuro presidente, Paesi così evoluti da essere pronti per la democrazia; la Russia, invece, così arretrata da avere bisogno di un periodo di collettivismo forzato, mentre i due Paesi usciti sconfitti dalla Prima guerra mondiale, e in pieno tumulto sociale, avevano bisogno del pugno forte della dittatura. Pensieri banali, ma molto diffusi allora, e poteva ben averli uno studente americano.
Bisogna considerare, oltretutto, che il padre di John era - se non addirittura filohitleriano - certamente non ostile al nazismo; e che, come ambasciatore a Londra, si batteva perché gli Stati Uniti non entrassero in guerra contro la Germania a fianco della Gran Bretagna. Anche per questo venne rimosso, nel 1940. Joseph aveva una forte influenza sul figlio, e il suo giudizio avrà pesato.
Qualche settimana più tardi, il 21 agosto a Colonia, dopo aver risalito - entusiasta del paesaggio - la valle del Reno, Kennedy accenna alla superiorità della razza germanica rispetto ai popoli di origine latina. «Abbiamo risalito il Reno. É bellissimo, anche per i molti castelli lungo il percorso. Le città sono tutte deliziose, ciò che mostra come le razze nordiche sembrano essere certamente superiori a quelle romaniche». Anche questo è un pensiero "normale", soprattutto per un anglosassone, allora come oggi tendente a pensare che le razze latine sono, sì, bianche, ma con un po' troppo sangue africano nelle vene. Proprio in quegli anni gli uffici di immigrazione statunitensi definivano gli italiani come «razza bianca di pelle scura».
Per quanto in tono ancora vagamente razzistico, Kennedy continua l'annotazione con spirito pratico: «I tedeschi sono davvero troppo in gamba, per questo ci si mette tutti insieme contro di loro, per proteggersi». Chi sa se un quarto di secolo dopo, da presidente, ricordò quel pensiero sui tedeschi «in gamba», quando il 26 giugno 1963 - protestando contro la costruzione del Muro - dichiarò: «Ich bin ein Berliner», io sono un berlinese.
L'annotazione che lascia più sconcertati, però, è quella del primo agosto 1945, tre mesi dopo il crollo del Terzo Reich, dopo che Kennedy aveva visitato il cosiddetto «Adlerhorst», il nido dell'aquila, la residenza alpina del Fuehrer sulle montagne di Berchtesgaden. Una sera, dopo cena, Kennedy - non più ragazzo, ma ormai ventottenne - fumò «i sigari ritrovati nell'auto blindata di Goering» e si lasciò andare a un'affermazione che lascia perplessi. «Chi ha visto questi luoghi può senz'altro immaginare come Hitler, dall'odio che adesso lo circonda, tra alcuni anni emergerà come una delle personalità più importanti che siano mai vissute. La sua ambizione sconfinata per il suo Paese ne ha fatto una minaccia per la pace nel mondo, ma lui aveva qualcosa di misterioso nel suo modo di vivere e nella sua maniera di morire, che gli sopravviverà e continuerà a crescere. Era fatto della stoffa con cui si fanno le leggende». Bisognerà anzitutto leggere l'intero periodo in una buona traduzione: quella che abbiamo - inglese tradotto in tedesco e ritradotto in italiano da un'agenzia di stampa - non dà alcuna garanzia di precisione, e quella «stoffa con cui si fanno le leggende» sa tanto di traduzione troppo letterale per essere precisa.
Comunque, di certo si tratta di un'annotazione frettolosa, come si può scriverla su un diario o nella lettera a un amico. Kennedy aveva dato prova certa di antinazismo combattendo valorosamente nel Pacifico, benché fosse stato riformato: e fu proprio sua padre a "raccomandarlo" per fargli avere l'arruolamento. Forse, Kennedy vuole rilevare qualcosa di ovvio, semplicemente ovvio, ovvero il carisma di Hitler, quel carisma che aveva permesso al Fuhrer di sedurre il proprio popolo: un argomento che non poteva non affascinare un giovane già con ambizioni di capo del proprio popolo. É più sorprendente, e disdicevole, che Kennedy preferisse parlare della tecnologia militare dei tedeschi piuttosto che dei campi di sterminio, ormai noti. Anche in questo caso si può ricordare che Joseph non brillava per amore verso gli ebrei, ma andremmo troppo lontani con deduzioni e illazioni.
Lo stesso Oliver Lubrich, del resto, tenta di smorzare la miccia che ha acceso con il suo libro, dicendosi convinto che Kennedy non ammirasse né Hitler né la sua politica. Lo storico tedesco tenta di spiegare le annotazioni contenute nei diari del futuro presidente americano citando la tesi di Susan Sontag sull'«incredibile fascino esercitato dal fascismo». Direi piuttosto: il fascino che un capo carismatico può avere su un altro capo carismatico, sia pure nemico.


Ma, in conclusione, nessun capo, per quanto grande, per quanto carismatico, riesce a prevedere che, quanto scrive e dice a vent'anni, verrà usato contro di lui per il resto della vita e della storia.
www.giordanobrunoguerri.it


di Giordano Bruno Guerri

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