Dimenticate la regina, il cambio della guardia, i parchi, i teatri del West End, i college d'eccellenza, la più vasta metropolitana d'Europa e le grandi opportunità di una società multicult. «In Gran Bretagna piove sempre, fa freddo e il lavoro scarseggia». Dovrebbe suonare più o meno così lo spot (al contrario) che Downing Street, il ministero degli Interni e quello del Lavoro stanno mettendo a punto, con l'idea di tappezzare Bucarest e Sofia di cartelli pubblicitari, per frenare il grande flusso di immigrati pronti a lasciare Romania e Bulgaria dal primo gennaio 2014, quando cadrà il divieto di vivere e lavorare nel Regno Unito.
Un tempo era l'idraulico polacco. Ora l'incubo britannico sono migliaia di immigrati romeni e bulgari a caccia di lavoro e fortuna. Incubo soprattutto per David Cameron, il premier che anche sull'immigrazione ha vinto le elezioni del 2010, addittando la politica delle porte aperte del Labour (i polacchi passati da 40mila nel '96, vigilia della vittoria di Blair, a 150mila nel 2003 fino ai 250mila di oggi). Il leader conservatore, che ancora fatica a far digerire agli inglesi i tagli al welfare già effettuati e quelli in cantiere, non può permettersi di dover aprire il portafogli per migliaia di lavoratori non-British, che tra poco meno di un anno avrebbero diritto ad assegni di disoccupazione e alloggi popolari proprio come gli inglesi doc. Impossibile cedere ora che ci gioca la rielezione, anche perché a tallonarlo ci sono non solo i nazionalisti del Bnp, ma soprattutto gli indipendentisti dell'Ukip (terzo partito secondo i sondaggi), pronti a raccogliere il malcontento di milioni di lavoratori britannici - dai taxisti ai ristoratori, dalle babysitter alle colf fino alle ballerine di lapdance - terrorizzati dall'idea di nuova concorrenza a basso costo e infuriati con la politica Bruxelles. Ecco che, mentre prepara limiti e restrizioni di accesso al welfare, mentre studia misure che possano consentirgli di rispedire a casa i nuovi arrivati che non trovassero lavoro entro tre mesi o non fossero in grado di dimostrare di potersi sostenere per almeno sei, il primo ministro si butta sulla propaganda, la diffusione di un messaggio negativo (o forse fin troppo realistico) per dissuadere i meglio intenzionati a lasciare il proprio Paese. Più che scoraggiare - riferisce una fonte del governo - l'obiettivo è «correggere l'impressione che le nostre strade siano lastricate d'oro». Una tecnica adottata negli ultimi anni da diversi Paesi, europei e non.
È già successo in Spagna, Israele, Australia. E nella vicina Svizzera, che nel novembre 2007 decide di mandare in onda, durante l'intervallo dell'amichevole di calcio Svizzera-Nigeria, uno spot televisivo in cui un immigrato di colore telefona al padre raccontandogli della bella vita che fa nel Paese d'adozione, salvo poi chiudere il telefono e tornare a vivere per strada, chiedendo l'elemosina e in continua fuga dalla polizia. Messaggio chiarissimo, peraltro finanziato dall'Unione europea, perché di mezzo, in questo caso, c'è la clandestinità. Messaggio difeso e giustificato dell'allora ministro della Giustizia Christoph Blocher: «Dobbiamo dimostrare agli africani che non siamo un paradiso». Obiettivo raggiunto, almeno nello spot, poi diffuso in Camerun e Congo. Un espediente adottato ancora prima dalla Spagna, che già a settembre del 2007 aveva mandato in onda in Camerun una campagna tv da oltre un milione di euro in cui mostrava corpi senza vita dopo uno dei viaggi della speranza sui barconi per raggiungere le Canarie. «Sapete come finisce questa storia - chiosava il cantante camerunense Youssou N'Dour - Non rischiate la vostra vita per niente». Più o meno il messaggio che il premier uscente Benjamin Netanyahu vorrebbe recapitare ai migranti di Eritrea e Sudan pronti a riversarsi in Israele per cambiare vita. La tecnica è nota e non ha colore. L'ha usata in Australia anche la premier laburista Julia Gillard, che ha voluto diffondere su Youtube le immagini dei barconi intercettati al largo delle coste australiane e poi rispediti in Malaysia.
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