«Siamo stati sommersi dall'acqua, sballottati per ore da venti terribili, mentre il buio ci avvolgeva. Poi siamo riusciti a vedere la terra: era la spiaggia, piena di cadaveri». La scia di morte di Haiyan. Il supertifone ha lasciato le Filippine per colpire il Vietnam (con un'intensità però molto minore, tanto da essere declassato a «categoria uno»), ma le isole che ha spazzato sono distrutte: un primo bilancio del governatore della provincia di Leyte parla di diecimila morti. Almeno trecento morti e duemila dispersi sull'isola di Samar, la prima a essere travolta, ma in alcune aree interne non è stato ancora possibile mettere piede. Il ministro Bonino ha spiegato che fra le vittime «per ora non figurano italiani», ma è presto per le certezze, soprattutto sui dispersi.
Tacloban, la città capoluogo di Leyte, è «totalmente distrutta» dicono i testimoni. Non ci sono telefoni né elettricità, quindi affidano alle telecamere della tv i loro incubi, la loro disperazione, i messaggi per i parenti: «Non abbiamo più la macchina e la casa, ma siamo vivi», «Undici membri della famiglia sono morti, solo in pochi sono sopravvissuti» scribacchiano sui piatti di carta o sui fogli, e poi li fanno inquadrare, nella speranza di dare notizie ai propri cari. «Tutto è stato spazzato via, la mia casa è uno scheletro» dice un ragazzo, confermando coi suoi occhi ciò che le autorità hanno già calcolato: Haiyan ha distrutto il 70-80 per cento delle abitazioni che ha incontrato. Insieme a ponti, strade, pali della luce, cavi telefonici, scuole, chiese, negozi, alberi e perfino aeroporti. Le spiagge sono «piene di cadaveri», lungo la costa devastata dal vento, dalla pioggia e da onde alte fino a sei metri. E poi ci sono i corpi ancora nascosti, quelli da recuperare fra le macerie della abitazioni fatte a pezzi e sparpagliate, casette povere, costruite con materiali fragili che hanno potuto pochissimo contro uno dei tifoni «più potenti della storia».
E poi ancora cadaveri lungo le strade, coperti come si può, perché nelle zone colpite manca tutto e gli aiuti fanno fatica ad arrivare, perché le strade non esistono più e ci si può spostare solo in elicottero o con camion grossi e lenti. Alcuni di questi mezzi, carichi di acqua, cibo e farmaci, sono stati assaliti da quelli che il segretario della Croce rossa ha definito «gangster». Ma gli atti di sciacallaggio sono ovunque, gesti di gente disperata che tenta di sopravvivere come può, anche con la violenza e l'aggressione: «Il tifone ci ha strappato la dignità, ma sono tre giorni che non mangio» racconta un uomo che ha fatto razzia di spaghetti, birra, sapone e biscotti. «Entro una settimana, se qui non arrivano i soccorsi, moriremo tutti di fame» dice un insegnante di Tacloban, che ha paura che la gente «comincerà a uccidersi». In città i sopravvissuti «camminano come zombie», in cerca della moglie, del marito, dei genitori, dei figli, di acqua e cibo. Ieri il presidente Aquino durante una visita ha rassicurato la popolazione che i soccorsi arriveranno, la comunità internazionale si è mossa (gli Usa con navi, elicotteri e mezzi di soccorso, la Ue con tre milioni di euro e la Gran Bretagna con altri 7 milioni), il Papa ha invocato preghiera e aiuti concreti (anche la Cei ha stanziato tre milioni), ma per la popolazione di Leyte e Samar è stata la terza notte da incubo.
E i corpi, le migliaia di morti da piangere, vanno recuperati e sepolti in fretta, perché il rischio di malattie è troppo alto. «Dovunque guardiamo, vediamo morti nelle strade», questa è Tacloban, un altro paradiso perduto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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