Fabbrica e oratorio: così gli immigrati diventavano genovesi

Fabbrica e oratorio: così gli immigrati diventavano genovesi

Tuttora ripensando a quel tempo lontano (il riferimento è agli anni ’50) provo quasi una sensazione di nostalgia e di stupore. Sì, soprattutto stupore per come, qui a Sampierdarena - è opportuno esternarlo - si riteneva naturale avere rapporti con chi, per ragioni diverse, manifestava o si comportava in altro modo dalle nostre consuetudini e dalle nostre usanze.
Ogni tradizione era accettata. Mai, da parte nostra vi furono pregiudizi o atti di strafottenza. E il «foresto» lo avvertiva, contraccambiando con la cortesia.
Oggi non è più così.
Ogni rapporto è alterato. Vi è violenza. I contatti avvengono con diffidenza. Adesso i nostri quartieri sono diventati, per chi arriva da fuori, terra di conquista. Luoghi da oltraggiare. E noi, disprezzando, ci chiudiamo quasi sempre a riccio, lasciando che «l’altro» affoghi nel suo delinquere.
Ad esempio, a Sampierdarena, nel passato viveva un gruppetto di cinesi. Erano riusciti a scappare dal loro paese quando, nel 1949, i comunisti di Mao presero il potere in Cina. In banchetti minuscoli, collocati in strade dove c’era più via vai di gente, vendevano cravatte e fazzoletti di seta - così garantivano - e altri tessuti variopinti. Inoltre, sotto ai portici, vicino alla Stazione ferroviaria, sostavano in permanenza, pure, alcuni indiani sempre agghindati con turbanti che ornavano loro il capo. I quali si prodigavano, con un linguaggio indefinibile, pur sapendo parlare italiano e genovese, a reclamizzare pasticche lassative e unguenti efficacissimi per estirpare duroni e calli dai piedi. Non sarebbero mancati, anche in quel periodo, gli zingari che, sparsi ovunque, offrivano con garbo - forse sarà stata una razza differente da quella attuale - e per pochi soldi stringhe, nastri per capelli, mollettine per stendere la biancheria... Ed ognuna di queste etnie riusciva a vivacchiare. Mai si notarono segni d’insofferenza. E mai ci furono screzi. Anche perché ai sampierdarenesi le forme stravaganti o bizzarre che fossero, raramente sorprendevano. A volte non ci facevano neppure caso. Ma, non era un comportamento di superbia.
Ritengo che a mantenere saldo quell’equilibrio umano, esemplare per socievolezza, abbia contribuito l’ambiente lavorativo delle tante fabbriche situate nel territorio. Le quali, oltre a garantire lavoro e sicurezza economica per migliaia e migliaia di famiglie, avrebbero disciplinato ed emancipato politicamente e culturalmente generazioni di uomini... e a ciò è doveroso aggiungere la presenza attiva - e non fu di poco conto - della chiesa locale.
Gli oratori delle chiese di Sampierdarena, in particolare quello di Don Bosco e quello della N.S. della Cella, furono vere fucine di formazione spirituale e morale. Anche se per alcuni la funzione della chiesa venne giudicata come ingerenza politica, la fabbrica e l’oratorio è stato un binomio inscindibile che ha caratterizzato e distinto Sampierdarena nella storia del novecento italiano. Tale fenomeno avrebbe bisogno - dato che non c’è ancora stato - di uno studio e di una considerazione maggiore.
In questo contesto ricordo che in un mese primaverile, dal clima clemente, si era accampato, in un slargo, nei dintorni della «Crocera» (un borgo di Sampierdarena scomparso, a ridosso tra lo Zuccherificio Eridania, la Fabbrica dei Tabacchi e il «Meccanico» del complesso Ansaldo) un furgone motorizzato di notevole grandezza, con agganciato un rimorchio.
Però, non era abitato - come in un primo tempo si era pensato - da nomadi. Vi alloggiava - e questo lo si potè constatare appena di sistemarono - una famiglia di attori. Attori di un Teatro ambulante. Infatti, quando al carrozzone (quello trainato) tolsero una fiancata laterale e lo addobbarono, si trasformò in una ribalta. Una specie di palcoscenico corredato con tendaggi, riflettori e da un sipario colore rosso con il bordo frangettato di giallo. E sopra, come cornice, in funzione dell’episcenio, primeggiava una scritta: «Carro di Tespi».
Quella citazione che significato conteneva?
Voleva significare teatranti ambulanti.
E fin qui nulla da obiettare. Anche se la scelta del luogo era sembrata un po’ azzardata, dato il traffico consistente di gente e di mezzi che vi transitavano. Addirittura sarebbe capitato che avrebbe dovuto manovrare - un paio di volte al giorno - e non molto distante, una locomotiva ferroviaria con tanto di vagoni.
L’originalità dell’avvenimento fece superare ogni ostacolo.
Apparve una festa permanente. Poi, noi, poco più che ragazzetti, avremmo avuto una giustificazione plausibile per uscire di casa; oppure obbligare qualche familiare ad accompagnarci agli spettacoli.
Ritornando alla definizione - alquanto inconsueta - «Carro di Tespi». Cosa altro dire?
Si seppe che vennero denominati nel modo quasi tutti i teatri ambulanti (era un mezzo simile ad una roulotte) messi in funzione in Italia intorno al 1930. Il regime fascista pensò, con l’iniziativa, di fare giungere (e fu un esempio tipico di cultura popolare) specie nei centri urbani minori o in zone abitative periferiche, l’attività educativa del teatro. Per il fascismo, il teatro, nelle sue rappresentazioni (commedie, tragedie, opera lirica), avrebbe elevato lo spirito creativo delle masse.
A Genova, di quella iniziativa fascista, si ebbe poca risonanza. Non era da escludersi che la promozione abbia avuto risultati positivi in paesi del meridione. Da noi non mancavano, di certo, i teatri e le sale cinematografiche, che potessero giustificare una presenza di quel genere.
E quello che fece tappa a Sampierdarena, nella metà degli anni ’50 - ormai, fuori dal suo tempo - gestito in maniera privata, si presume fosse l’unico esemplare rimasto ancora in circolazione. E come i proprietari di questo «carrozzone» fossero venuti in suo possesso, rimase un mistero. Anche perché a nessuno importò di sapere.
Ancora una curiosità: il nome Tespi da dove sbucava?
Tespi sfugge ad una indagine storica. La trattazione è avvolta nella leggenda. Si apprende, da alcuni cenni fatti da Silvio D’amico, che fu un personaggio vissuto nel VI secolo a.C. e che gli viene attribuita l’invenzione della tragedia greca. Sempre si dice che fu proprio Tespi ad introdurre il primo attore. In precedenza, nella tragedia, il dialogo veniva svolto solo dal coro. Il quale si avvicendava, prendendo pausa, o con il suono di strumenti musicali o con un danzatore che mimava i contenuti della trama.
Da quei teatranti ricordo che, della poetessa Grazia Deledda, ascoltai una lettura di brani declamati in modo aulico. Mi riferisco a Cenere, L’edera, La Grazia. E di queste opere rappresentate ho la sicurezza. Mi aveva accompagnato, per alcune sere, una vicina di casa. Essendo sarda, avrà immaginato di assaporare una ventata di profumi della sua terra. Poi, in altre occasioni, venne rappresentato, di Vittorio Alfieri l’Oreste; di Luigi Pirandello Vestire gli ignudi e Il piacere dell’onestà. E chissà quali altre tragedie o commedie ebbi modo di conoscere. Per appurare ciò che scrivo ho fatto anche una ricerca sui quotidiani cittadini, proprio su quel periodo specifico. Purtroppo la speranza di trovare riferimenti eventuali è stata vana.
Altro aspetto indimenticabile era che ad ogni inizio di serata, veniva suonato, con un grammofono, come prologo, l’Inno di Mameli. E prima che venissimo a sapere il motivo, lo giudicammo un eccesso demagogico. Poi, si apprese che tutto quel gruppetto di teatranti erano di Fiume. Città che dopo la guerra, nel 1945, divenne della Jugoslavia. E loro preferirono passare, ovviamente, in Italia. Svanirono le critiche e quel preambolo iniziale venne tollerato.
Per dare ai fatti che racconto riscontri di verità, ho riemerso dalla memoria due episodi. Uno fu quando una sera, essendo in ritardo, per arrivare puntuale all’inizio dello spettacolo, corsi. Però, nell’atto di pagare il biglietto d’ingresso, avvertii di avere smarrito il denaro. Ne rimasi mortificato. Persino temevo, colmo di vergogna, che si pensasse ad una mia furbizia. Quando sembrava che mi cascasse tutto addosso, sentii porgermi, dalla ragazza addetta all’entrata e attrice pure lei, una carezza in segno di affetto. Aveva il viso già imbiancato. Truccato per entrare in scena. Sorridente mi fece segno di andare a sedermi, senza preamboli. L’altro fatto ho certezza che avvenne, fu quando, una sera, dopo avere ascoltato il consueto Inno di Mameli, un attore con la tunica e i calzari fatti a sandalo, volle commemorare Ermete Zacconi. E in suo onore - pure lui - si cimentò, abbozzandola, nella classica Apologia di Socrate, tratta dai Dialoghi del Critone e del Fedone di Platone. E prima della esibizione una voce fuori scena, volle spiegarci che solo ad una mente straordinaria - come ebbe il grande attore Ermete Zacconi - poteva balenare di tradurre per il teatro quei dialoghi...
Oggi quel posto, che per una lunga stagione indimenticabile ci fece un po’ sognare ed astrarre è sfigurato. Non vi è rimasto traccia. Inoltre, a chi potresti dire che nei dintorni esisteva anche l’abitazione dove nacque, in «odore» di santità, Nicolò Daste (1820-1899)?
Nonostante ciò, anche allora - abbiamo già detto - il borgo della «Crocera» fu infelice per una manifestazione del genere. Però, ogni cosa funzionò, ugualmente, con dignità. I risultati furono soddisfacenti. E anche se i programmi recitati erano impegnativi, la partecipazione all’ascolto corrispose numerosa.
Gli spettatori sembravano avere - e ai commedianti non sfuggì quel comportamento - un allenamento, una abitudine per il teatro. Una competenza e un gusto di conoscenza. Magari, la novità era rivolta più verso il mezzo mobile, che per i contenuti recitati. E in tutto ciò vi era una ragione. In aggiunta ai Teatri ufficiali, in quel tempo funzionavano ancora, in ogni Cral aziendale (emanazione dei dopolavori fascisti), compagnie filodrammatiche. E attività simili venivano svolte dai circoli parrocchiali con altrettanta competenza.
Più di un ferroviere si sarebbe fermato, alla fine del turno lavorativo, ad assistere agli spettacoli. Come fecero, d’altronde, anche i dipendenti del «Meccanico». Questi, poi, non avrebbero potuto ignorare quello che accadeva. La portineria dello stabilimento stava di fronte al Carro di Tespi.
Così, con la partecipazione di molti spettatori, quella «compagnia» riuscì ad accumulare qualche soldo. E nell’ultimo giorno della loro permanenza a Sampierdarena, nel momento del congedo, l’attore più anziano, colui che fungeva da capo carovana, ringraziando con dignità fece cenno sia alla competenza teatrale degli spettatori e alla loro generosità. Disse che ciò che avevano ricavo, a loro, sarebbe servito per affrontare la stagione invernale con meno preoccupazioni del solito...
I primi acquazzoni di settembre avevano fatto accelerare la loro partenza.

E, dall’oggi al domani, scomparvero. Trovammo spazzato anche il ciottolato. Di loro, di quel Carro di Tespi, mi è rimasto nel sentimento - e avrà contribuito, inconsciamente, pure quella carezza - una testimonianza incancellabile.

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