Il fallimento del travaglismo

Di tanto in tanto mi capita di comprare il settimanale cattolico torinese «Il nostro tempo». Regolarmente me ne pento. Ultimamente a causa delle intere pagine dedicate a elogiare Marco Travaglio che proprio in quel giornale imparò il mestiere. Non so se a «Il nostro tempo» stiano preparandosi per il ritorno del giornalista o, vista la collocazione dell’ultimo articolo accanto a una pubblicità dal titolo «Rendiamo onore alla storia di una vita», sia un curiale modo definitivo di celebrare l’ex collaboratore.


Certo è, caro Airaudo, che la foliazione e l’impaginazione dei giornali possono, talvolta, giocare dei brutti scherzi. Ad esempio facendo dominare la pagina che l’organo diocesano dedica a un’apologetica presentazione del libro «Marco Travaglio. Il rompiballe», dalla mega pubblicità di una nota agenzia di pompe funebri il cui slogan è: «L’arte dell’ultimo saluto». E ci sarebbe da riderci sopra se per Travaglio le cose non si fossero messe così male da giustificare il titolo di quel pelo e contropelo firmato, giusto l’altro ieri, dal nostro Filippo Facci: «In tv va in onda la fine del travaglismo». Perché così è, caro Airaudo: preso a randellate anche dalla sinistra, anche dai repubblicones, il travaglismo sta esalando gli ultimi due o tre respiri che gli restano. E questo non solo perché è venuto a noia, perché ogni travagliata provoca uno sconsolato: «Uffa! Non se ne può più». Quel che l’ha falciato è stata l’inanità del suo strumento dialettico: l’antiberlusconismo ferino. Un antiberlusconismo che pesca nella politica e nelle vicende giudiziarie, ma anche nella tricologia, nel comparto tacchi del calzaturiero, in quello degli accessori - mettiamo una bandana - primavera-estate e perfino nella botanica, con particolare riferimento alla famiglia delle xerofite, vulgo cactus. Ebbene, tutto quel darsi da fare, quotidianamente e per oltre una decina d’anni, come un matto non ha sortito l’effetto desiderato. Se lo scopo era di annichilire Silvio Berlusconi, di spazzarlo via dalla scena politica e, cogliendo l’occasione, da quella imprenditoriale, il risultato lo si è visto il 13 aprile scorso: anziché veleno, il travaglismo s’è rivelato, per il Cavaliere, un tonico, un portentoso ricostituente.
A nessuno piace tirarsi la zappa sui piedi. Specie se la zappata è di quelle che lasciano il segno e, faccenda ancora più dolorosa, ti fa perdere il potere. Comprensibile, dunque, che la sinistra e la società civile al seguito abbiano preso le distanze dal travaglismo e dal suo ideologo, mettendosi a fargli le pulci. Con malizia (o proprio perfidia?), occorre dire, travagliesca. Interventi dai quali il buon Travaglio, forse non avvezzo, lui impallinatore, al ruolo d’impallinato, si difende in modo goffo, balbettante. A chi gli ricordava d’appartenere alla classe dei condannati, gli stessi ai quali intenderebbe togliere il 95 per cento dei diritti umani e civili, obbiettò che no, non lo si poteva dire condannato ma, al massimo, soccombente. Perché il tal modo è definita la parte colpevole nel processo civile. Siamo ai giochini di parole, alle capriole verbali e cioè alla metaforica canna del gas.

In ogni sentenza che chiude un processo civile, si legge infatti: «Il Tribunale condanna la parte soccombente...». Condanna, c’è scritto, voce del verbo condannare. E il participio passato del verbo condannare fa, non ci son santi, condannato. Altro che soccombente.

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