Fantascienza? Sì, ma antimoderna

Massimo Fini, fiero avversario della tecnologia, scrive un romanzo che racconta un futuro da incubo Chi non ascolta la radio diventa un paria. La realtà, compresi gli omicidi, esiste solo se va in onda

Fantascienza? Sì, ma antimoderna

In strada soffiava una brezza vivace. Matteo si incamminò lungo le zone d’ombra create dai grandi alberi immoti che ornavano il viale Est. Camminava lentamente. Aveva tutta la giornata per sé. Sul marciapiede rari passanti frettolosi tiravano via intenti ad ascoltare le loro cuffie, lo sguardo fisso. Anche Matteo prese la cuffia per sintonizzarsi sui dibattiti di RadioWorld. A quell’ora ce n’erano di notevoli. Ma ci ripensò e la rimise in tasca. Si sentiva un po’ stanco. «Almeno il giorno di vacanza si avrà il diritto di tirare un po’ il fiato» si giustificò. Ad ogni buon conto, se si fosse sbrigato, a mezzogiorno c’era Superdiscussion, una sintesi di tutti i più importanti dibattiti della mattinata.

Matteo si era lasciato alle spalle il filare di alberi e ora poteva vedere il viale in tutta la sua lunghezza. A destra e a sinistra, per una dozzina di chilometri, si allineavano parallelepipedi di cristallo e cemento, di quattro piani. Le facciate delle abitazioni più signorili, verso il centro, erano ricoperte e abbellite da rampicanti tropicali, in omaggio ai dettami della Bioarchitettura.

In fondo al viale la fuga delle case era interrotta da un altissimo edificio a forma di cono, sormontato da un grande dado girevole sulle cui quattro facce si leggeva alternativamente a caratteri cubitali: «LA NOTIZIA È IL FATTO / IL FATTO È LA NOTIZIA», che era lo slogan di TeleWorld di cui il cono era la sede. Piazzato al centro geometrico dell’abitato (vi si incrociavano ad angolo retto altri tre viali delle stesse dimensioni di quello che stava percorrendo Matteo), il cono, con il suo dado, era visibile da ogni punto della città, anche il più lontano. La sera i caratteri a quarzo della scritta facevano cadere sulla città una verde luminescenza che la rischiarava tutta. Matteo non era mai riuscito ad abituarsi completamente al perpetuo moto di quel dado e quando camminava in direzione del centro preferiva tenere gli occhi bassi.

Andò a sbattere contro un signore, piuttosto corpulento, che stava uscendo da uno dei parallelepipedi. «Oh, mi scusi» farfugliò Matteo. L’altro lo fissò con due occhi grigi, alteri, di straordinaria luminosità, accentuata forse da un tocco di trucco. Folte sopracciglia, basette brizzolate e guance tonde di un piacevole incarnato rosa completavano i tratti di quel viso. «Le spiacerrebbe guarrdare dove mette i piedi?» disse l’uomo arrotando tutte le erre e facendo una graziosa smorfia di disappunto. Poi voltò di scatto le spalle a Matteo e si mise a camminare a passi rapidi. Matteo lo seguì con lo sguardo. Era un uomo alto, con spalle forti e un completo blu tagliato perfettamente che ingentiliva un corpo appesantito dall’età. Un feltro grigio copriva solo in parte la nuca robusta. Nella destra teneva un bastone da passeggio con una pesante impugnatura d’argento. Matteo apprezzò la disinvoltura con cui quell’uomo portava un abbigliamento così démodé e lo invidiò un poco, senza cattiveria. Lui, piccolo, stortignaccolo, non avrebbe mai potuto permettersi nulla del genere.

Il signore in blu era ormai lontano una ventina di passi. Il campo visivo di Matteo fu occupato da due giovani alti che gli erano improvvisamente comparsi di fianco e che ora gli camminavano un paio di metri avanti. Matteo poté ammirarne la vita sottile e le giovani natiche, magre e muscolose, strette nei jeans. Vide il braccio di uno dei ragazzi frugare in uno zainetto che portava a tracolla e, poi, piegarsi a gomito. Si sentirono due colpi secchi. L’uomo in blu si voltò. Poi si mise a correre zigzagando, senza più girarsi, con un’agilità insospettata. Altri due colpi. L’uomo cadde di schianto come se gli avessero tagliato di netto le gambe. Il cappello volò lontano scoprendo un lucido cranio calvo. I due giovani gli furono sopra. Quello che aveva sparato mirò ancora. Si sentirono solo un paio di deboli clic.

L’uomo, intanto, era riuscito a mettersi carponi e, a quattro zampe, dondolando la grossa testa, si trascinava assurdamente in avanti. In mano stringeva ancora il bel bastone da passeggio. Il giovane buttò lontano la pistola e afferrò il bastone cercando di strapparglielo. L’uomo era robusto e si aggrappò al bastone con tutte le forze che gli rimanevano. Ma era una lotta impari. Impadronitosi del bastone, il giovane lo impugnò a due mani e, ben piantato sulle gambe larghe, cominciò a colpire il vecchio con l’impugnatura d’argento, sulla testa. Da dietro, Matteo, che si trovava vicinissimo, poteva vedere il ritmico gioco delle spalle e il roteare del bastone come se fosse manovrato da un giocatore di baseball. Inquadrate fra le gambe del giovane scorgeva le grasse natiche protese e sussultanti che le falde della giacca, rivoltate sulla schiena dell’uomo in ginocchio, avevano scoperto. Il vecchio pederasta ebbe ancora la forza di voltare il viso verso i suoi assassini, piangendo e mugolando pietà. Il rimmel, mescolandosi alle lacrime e al sangue, gli scorreva lungo le guance tonde per coagularsi poi in un moccolo sul mento e da qui cadere a terra a formare una pozza nera e rosa, subito assorbita dall’asfalto. Un colpo assestato con tutta la forza gli fracassò le ossa della faccia e la ridusse a un’orribile mucillaggine. L’uomo emise un muggito, poi un fischio, acutissimo, e finalmente giacque sul marciapiede, immobile.

Il giovane lasciò scivolare a terra il bastone con un gesto di infinita stanchezza e il braccio gli ricadde lungo il corpo. La brezza gli scompigliava leggermente i capelli scuri. Osservò per un momento il cadavere, quindi, seguito dall’altro, si allontanò senza fretta. In pochi secondi i due erano scomparsi nella vicina stazione della metropolitana.
Matteo si guardò intorno. Su quel lato della strada non si vedeva nessuno. Sul marciapiede opposto i pochi passanti sembravano non essersi accorti di nulla. Probabilmente le cuffie avevano impedito loro di sentire gli spari. In altri tempi forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma represse subito quell’inizio di pensiero: la nostalgia per il passato era considerata un atteggiamento tipico degli UnInformed. Del resto nemmeno lui, che aveva seguito tutto, si era mosso. Perché non aveva almeno tentato di fermare quei giovani? Matteo si arrabbiò con il proprio senso di colpa, sempre affiorante. Non era mai stato un uomo d’azione e non lo sarebbe diventato adesso. E perché mai avrebbe dovuto rischiare la pelle per quello sconosciuto?

Si chinò con ostilità su quel cadavere che mandava un lezzo di sangue e di merda come accade spesso a coloro che muoiono assassinati. Notò il ciuffo di peli grigi all’altezza del polpaccio, là dove una pallottola aveva aperto un largo sbrego nei pantaloni, e lo slip rosso che con macabra civetteria spuntava da un altro squarcio del vestito. Quegli occhi chiari, che pochi minuti prima lo avevano squadrato con allegra alterigia, guardavano ora il vuoto. Il giocattolo uomo, rotto.
Matteo levò lo sguardo dal morto. Un passante veniva verso di lui. «Ehi!» chiamò. Ma quello aveva la cuffia. Con movimenti meccanici scartò il cadavere e anche la nera pozza di sangue che gli avrebbe inzaccherato le scarpe. Matteo, inginocchiato, lo guardò negli occhi, dal basso in alto. Ma quello aveva occhi immobili e fissi come quelli del morto.
Si sollevò. Giudicò più prudente andarsene. Non c’era più niente da fare di utile per quel vecchio e sarebbe stato seccante se lo avessero trovato vicino ad un cadavere.

Con passo che volle rendere sicuro prese a incamminarsi a testa alta verso il cono. «IL FATTO È LA NOTIZIA / LA NOTIZIA È IL FATTO». La testa gli girava vorticosamente. Gli parve di essere sul punto di svenire. Si frugò in tasca e si mise la cuffia.

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