Il fantasma di Craxi al Botteghino

«Se fossero come Craxi, l’elettorato e tutti noi li avremmo già immediatamente pensionati. Ma che elementi di craxismo circolino nei vertici Ds è indubbio». Sono parole di Paolo Flores d’Arcais e non vanno liquidate come il solito libello del direttore di Micromega. Al di là dei girotondismi e delle purghe giudiziarie, c’è un riflesso condizionato e c’è soprattutto lo spettro di Craxi che si aggira nelle stanze del Botteghino oggi come in quelle del Bottegone ieri. Sono passati venticinque anni da quel 1981 che segnò nel calendario comunista l’aut aut di Enrico Berlinguer sulla questione morale. Con sottile perfidia, il quotidiano Liberazione ha riproposto la storica intervista di Scalfari al segretario del Pci. L’icona di Berlinguer è ancora là, negli uffici di via Nazionale, la minaccia di Ghino di Tacco non è mai scomparsa. Eterni rivali, lo spiritaccio di Radicofani e l’austero leader sardo. Nemici reali nel passato e virtuali in questo presente. E così è forse istruttivo rileggere gli appunti di Antonio Tatò, segretario di Enrico Berlinguer, che prepararono i discorsi del leader del Pci all’alba degli anni Ottanta, oggi raccolti in un volume pubblicato da Einaudi intitolato «Caro Berlinguer».
C’era il complesso della superiorità certo (ieri in Berlinguer, oggi nella forma sprezzante del dalemismo o negli epigoni di Flores, i quali espongono il pregiudizio etico «che l’elettorato di sinistra sia moralmente superiore»), ma c’era soprattutto lui, Bettino Craxi, con il quale non bisognava stabilire alcun dialogo o «asse preferenziale» per non contaminarsi. Scriveva Tatò a Berlinguer il 26/27 agosto 1981, subito dopo l’intervista a Repubblica del 28 luglio: «L’attuale Psi, pur sottoposto in linea generale, alla critica e alla denuncia sacrosante (...) viene da noi privilegiato rispetto agli altri, lo lisciamo, lo preghiamo, lo premiamo, favoriamo che sia sovrarappresentato in ogni consesso, consiglio, istituzione, gli usiamo ancora un trattamento speciale senza saperne più bene il perché». Per il principale consigliere di Berlinguer bisognava rompere quella consuetudine, «tale contraddizione va superata perché essa annulla ogni possibilità di rendere pienamente coerente la linea del nostro partito, cioè la linea di Enrico Berlinguer, che è la linea giusta». E qual era la linea del segretario? Denunciare la degenerazione dei partiti che «hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali».
Venticinque anni dopo, i postcomunisti non sono ancora riusciti a fare i conti con la loro storia, hanno persino tentato di rivalutare Craxi senza che ciò comportasse un’autocritica sui loro errori, così oggi quell’intervista di Scalfari a Berlinguer si rivela un boomerang.

Sembra beffardamente l’autobiografia contemporanea dei Ds che si risolve in nemesi e nell’accusa degli alleati-avversari interni di essere contagiati, di avere nel proprio corpo «elementi di craxismo». È l’eterno ritorno del fantasma di Bettino, grazie al quale la «diversità» della Quercia finisce nel clangore esemplare di un contrappasso dantesco.

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