Dopo aver letto questo romanzo, parlare dei dietro le quinte delle sfilate milanesi assume un nuovo significato. Se fino a ieri immaginavamo splendide modelle seminude e feste da sogno, oggi che Non sfidarmi (Baku Editore) di Giorgio Bisi arriva in libreria, alla fragranza di queste icone del lusso dobbiamo sovrapporre il miasma di vizi e sudore. Dei primi sui giornali ogni tanto si parla, ma mai con lo sguardo privilegiato dellinsider che il milanese Bisi, ex ragioniere che da oltre dieci anni (oggi ne ha 32), collabora al visual merchandising delle più famose firme del look globale, fornisce nelle pagine di questo fashion-noir. Del secondo invece non si parla mai e la novità del romanzo sta anche qui: «Il mondo della moda che tutti conoscono è quello degli one man show che hanno senz'altro carisma da vendere, ma che conquistano visibilità e benefici - popolarità, successo, donne - solo grazie alla fatica di troppe persone che vivono nell'ombra» ci spiega lautore.
Persone come lei... quindi il Gedeone del romanzo la rappresenta?
«Quella non è la mia storia. Io il giro di giostra l'ho già fatto e quel che accade lì non mi può più capitare. Ho avuto la "fortuna" di veder succedere ad altri quel che accade a Gedeone, assistente personale di un grande del fashion: lavorare dodici, quattordici ore al giorno per qualcuno che gode di tutti i benefici di questo sacrificio. Per poi venire tradito, nella professione e nei valori».
Ma questo capita in tutti gli ambienti...
«Ma non in tutti gli ambienti il tradimento è legato a giochi estremi: prostituzione, droga e, nel caso del libro, a un omicidio».
Diceva del crollo dei valori. Ma sembra che alla fine Gedeone diventi peggio del suo capo.
«Se vuoi rimanere nell'ambiente devi costruire la vendetta con le regole dell'ambiente: Gedeone rafforza il corpo - con anabolizzanti e steroidi - e il biglietto da visita. E comincia la scalata ai vertici dell'azienda di moda per cui lavora. Grazie ai ricatti cui sottopone il capo che lo umiliò. A questa scalata corrisponde una discesa morale, ovvio».
Quanto c'è di vero nel suo romanzo?
«Diciamo che ho dato voce a un risentimento molto presente nel mondo della moda, dove lo sforzo del singolo si perde nello sfarzo. Troverete un sunto delle persone che ho conosciuto e anche qualche somiglianza».
Un atto d'accusa?
«Volevo scrivere cose non scontate. Avrei potuto fare un altro I love shopping o Il diavolo veste Prada. O fare gossip, come i giornali. Ma la moda non è solo quello».
Feste, ricatti e droghe che descrive nel romanzo sono così intrecciati con la moda?
«Indissolubilmente. Appena conquisti potere e visibilità diventi cieco a ogni morale».
Diffusione di droga e prostituzione da uno a cento?
«Diciamo 51%».
E ogni giorno, sul lavoro, com'è?
«Proprio come scrivo nel romanzo: manicure e pedicure per andare in ufficio. Look sempre impeccabile e al top. Stupefacenti per tenersi su ore ed ore. Cambiare donna ogni sabato e domenica. E magari pure negli altri giorni della settimana. Il sadico pensiero di farsi la moglie del capo per vendetta. E riunioni di trenta persone per decidere il colore di un gadget da regalare alla sfilata, che magari è un accendino».
E se il colore viene fuori sbagliato?
«Magari qualcuno salta».
Ma il successo di un marchio dipende anche da queste scelte...
«Purtroppo sì e lo dico con amarezza. Che un brand possa fare tendenza con un colore nuovo è un'assurdità, è quasi ridicolo. Nell'ambiente tutti sappiamo che tutto ritorna, che nulla è davvero nuovo. Lo sa bene Armani che ha trovato i suoi pantaloni alla sfilata di Dolce&Gabbana».
Milano è ancora il centro di tutto questo lusso?
«Per la moda essere a Milano è esserci. Tutte le maison che contano hanno qui i loro quartier generali».
E' paragonabile a New York?
«Rimane all'altezza, anche per stile di vita. Ti concede picchi di lusso e novità altissimi».
Ma girare per i locali, farsi vedere non è un po' passato tutto di moda, appunto?
«Niente affatto. Più si viene fotografati, meglio è. Mostrarsi conviene sempre. Lo dimostra il fatto che le firme aprano solo qui i propri locali, Just Cavalli, Armani Café, Gold di Dolce&Gabbana, e li frequentino».
A volte però sempre che la «Milano bene» voglia un po' snobbare questi ambienti...
«Lo escludo. Io li vedo sempre negli stessi locali, tutti insieme. Magari non vanno a braccetto. Ma sono lì. Avere i fashion victim alla festa o alla serata è ancora sinonimo di cool».
Altre tribù riconoscibili che gravitano attorno alla moda?
«Il fighetto milanese, che non tramonta mai: mani in tasca, capello lungo, sguardo da ebete».
E poi?
«E poi i normali: quelli che pensano di non dare valore a quello che si mettono. Ma in realtà gli danno solo il valore sbagliato. Sapersi vestire in una metropoli è una necessità espressiva».
Per non sembrare «infiltrati» in una di queste feste come si fa?
«Bisogna avere un proprio stile, tutto bianco o tutto nero, stretto o largo non importa, basta averlo.
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