Antonio Gramsci non fu il solo pensatore, negli anni Venti-Trenta, a teorizzare che il vero agire politico consiste nella diffusione di idee nella società civile. Nell’introduzione al saggio-diario di Giuseppe Bottai Vent’anni e un giorno (appena ristampato dalla Bur) ho rilevato che l’intellettuale e ministro fascista giunse in proposito a conclusioni simili a quelle del Gramsci dei Quaderni del carcere, senza peraltro conoscere le analisi del prigioniero comunista; Gramsci, invece, conosceva e teneva in considerazione le idee di «quell’uomo intellettualissimo», come ebbe a definirlo Mussolini.
Il pensiero di Bottai era incentrato su una concezione dello Stato come educatore delle masse, formatore di una visione del mondo collettiva scaturita non dalla coercizione ma da un libero spiegamento delle energie intellettuali. Grazie a questa politica culturale, l’habitus mentale di ogni cittadino sarebbe stato improntato automaticamente e autonomamente a una lettura della realtà comune e solidale. È il problema - scrive Bottai su Primato, il 1º giugno 1941 - di «trovare nel Regime, anche per la cultura, un sufficiente rapporto di libertà-organizzazione, che sia consono ad un tempo alle esigenze tecniche, politiche e sociali dello Stato moderno guidato dalle prementi necessità di una organizzazione collettiva e collettivistica, e alle esigenze critiche e individuali della cultura».
Gramsci, in carcere, aveva scritto: «Compito educativo e formativo dello Stato, che ha sempre il fine di creare nuovi e più alti tipi di civiltà, è di adeguare la “civiltà” e la moralità delle più vaste masse popolari alle necessità del continuo sviluppo dell’apparato economico di produzione, quindi di elaborare anche fisicamente dei tipi nuovi di umanità. Ma come ogni singolo individuo riuscirà a incorporarsi nell’uomo collettivo e come avverrà la pressione educativa sui singoli ottenendone il consenso e la collaborazione, facendo diventare “libertà” la necessità e la coercizione?». La domanda e il problema hanno, come si vede, un approccio simile.
Il fondatore del Pci era impegnato a delineare una nuova figura di intellettuale, capace di superare le inadeguatezze del sistema politico liberale: sia affrontando i problemi derivanti dalla società di massa, sia legando alle esigenze del lavoro quelle della formazione e dell’educazione dell’individuo. Proprio come il suo avversario in camicia nera. Per Gramsci la strategia di Bottai incarnava un tentativo - da tenere presente - di ridurre, se non eliminare, il secolare problema della cultura italiana, cioè la separazione tra arte e vita, tra arte e politica. Benché le realizzazioni effettive del fascismo fossero molto lontane dagli enunciati di Bottai, Gramsci coglieva la «buona volontà» e la «spregiudicatezza» di uno spirito di cambiamento, sia pure «generico e di origini spurie».
Ci sono anche altri punti di contatto fra i due pensatori, ma veniamo al problema posto da Lucia Annunziata. Non sorprende che la destra, su questi temi, si rifaccia a Gramsci piuttosto che a Bottai; per quella ancora di ispirazione fascista, il gerarca rimane soprattutto il «traditore» del 25 luglio 1943; per quella liberale, rimane pur sempre un fascista, da cui stare alla larga per paura di contaminazioni.
D’altra parte è un bene che le menti migliori dell’attuale governo (siano Bondi, Gelmini, Tremonti o altri) peschino idee anche a sinistra: quello che Annunziata chiama «meticciato» non può essere che un innesto vivificante.
Una destra che riesca a superare i vecchi steccati dell’ideologia, e a adottare le buone idee senza badare alla provenienza (magari anche in una sinistra più recente e attuale di quella gramsciana), è una destra finalmente pronta a volare alto e nella quale mi posso riconoscere.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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