Politica

Fassino-D’Alema, duello sulla fine del Duce

Il segretario: fu giusto così. L’ex premier: no, serviva una Norimberga italiana

Vincenzo Pricolo

da Milano

Benito Mussolini andava processato oppure doveva essere ucciso, come avvenne, senza concedergli la possibilità di difendersi? La questione torna sui giornali grazie alle anticipazioni dell’ultimo libro di Bruno Vespa, «Vincitori e vinti», del quale il settimanale Panorama pubblica alcuni stralci nell’edizione da oggi in edicola. La più recente fatica editoriale del conduttore di «Porta a porta», infatti, registra sulla fine del dittatore fascista una divergenza di opinioni inaspettata, anche se in fondo spiegabile, fra Massimo D’Alema, che avrebbe preferito il processo, e Piero Fassino, che invece ritiene giusta l’esecuzione avvenuta il 28 aprile del 1945.
Sulla ricostruzione delle ultime ore di vita di Mussolini gli storici sono discordi e nemmeno hanno individuato con assoluta certezza chi ordinò la soppressione del Duce mentre il governo italiano e buona parte del Comitato di liberazione nazionale sembravano orientati a consegnarlo agli Alleati. Quello che invece non è mai stato messo in discussione è che fu il Pci a impegnarsi più di ogni altro partito antifascista affinché il dittatore non arrivasse a un processo pubblico.
«L'uccisione di Mussolini - ha spiegato a Vespa il presidente dei Ds - fa parte di quegli episodi che possono accadere nella ferocia della guerra civile ma che non possiamo considerare accettabili». Secondo l’ex presidente del Consiglio «un processo sarebbe stato più giusto». «Al di là dell'accertamento delle responsabilità individuali - spiega D'Alema - un processo al Duce, come quello di Norimberga, avrebbe anche consentito di ricostruire un pezzo della storia italiana».
La pensa in modo diametralmente opposto il segretario della Quercia, Piero Fassino. «Non ha senso riaprire questa pagina, che si presta soltanto a un revisionismo storico strumentale. La guerra - osserva il segretario dei Ds - ha le sue logiche spietate. Non si può dimenticare quanti partigiani sono stati torturati, fucilati, sono morti nei campi di sterminio. A quelli nessuno ha fatto il processo».
Una divergenza sorprendente solo in parte perché, sebbene i due abbiano la stessa età (sono nati nel 1949) e abbiano entrambi cominciato a fare politica da ragazzi, nell’organizzazione giovanile del Pci, hanno alle spalle storie familiari diverse. Fassino è nato ad Avigliana, nel Torinese, suo padre è stato partigiano, il suo nonno paterno è stato ucciso dai fascisti e il nonno materno è stato fra i fondatori del Partito socialista. E le sue biografie non mancano mai di ricordare che la Resistenza ha segnato profondamente la sua famiglia. Cosa che non si può dire di D’Alema, che pure ha avuto un padre parlamentare del Pci.
Comunque, manifestando il proprio rammarico per la mancata celebrazione di una Norimberga italiana con Mussolini alla sbarra, l’ex premier si è meritato il sarcasmo di Silvio Berlusconi («non mi stupirei se fra 10 o 20 anni i Ds riabilitassero anche Berlusconi»), il plauso della nipote del Duce («È significativa politicamente e storicamente - dice Alessandra Mussolini, leader di Alternativa sociale - la ammissione della ferocia usata verso Benito Mussolini dai partigiani»), le critiche del verde Paolo Cento («inutile revisionismo») e la lezioncina di Armando Cossutta. «La differenza fra Italia e Germania - spiega il presidente del Pdci - sta nel fatto che qui c'è stata una lunga e grandiosa guerra di liberazione, in Germania no; qui sono stati i partigiani a catturare i gerarchi fascisti con le armi in pugno, in piena fase bellica, in Germania no. I gerarchi nazisti furono catturati dagli eserciti alleati e giustamente processati a Norimberga. In Italia provvidero gli italiani, non per odio ma per dignità».
Difficile però ipotizzare che un tribunale chiamato dai vincitori del secondo conflitto mondiale a giudicare Mussolini avrebbe potuto concludere il suo impegno con una sentenza diversa dalla condanna a morte.

Commentando il processo di Norimberga, Winston Churchill, senza entrare nel merito, si sarebbe limitato a dire ai suoi più stretti collaboratori: «Vediamo di non perdere la prossima guerra».

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