Fassino e D’Alema mandano all’aria gli sforzi di Rutelli

Francesco Damato

È sfuggito a Eugenio Scalfari il commento più appropriato all’accordo intervenuto per bloccare la scissione della Margherita avviata dai fedelissimi di Romano Prodi. Dico «sfuggito» perché il giudizio del fondatore di Repubblica, per fortuna solo quella di carta, è stato espresso domenica in coda ad una lunga e un po’ troppo noiosa omelia sul «fantasma minaccioso della scienza». Che avrebbe tenuto irrazionalmente lontani il 12 e 13 giugno più di 74 italiani su cento dai referendum abrogativi d’alcuni limiti alla fecondazione assistita fissati dalla legge.
Riferendo in un «post scriptum» che Prodi è stato indotto da Piero Fassino e Massimo D’Alema a rassegnarsi al no della stragrande maggioranza della Margherita alle liste unitarie dell’Ulivo nella quota proporzionale delle elezioni politiche dell’anno prossimo, Scalfari si è compiaciuto di annotare: «All’interno della lunga alleanza che va da Bertinotti fino a Mastella i Ds e il loro segretario si sono conquistati sul campo una posizione centrale», che costituisce «il vero perno dell’intera coalizione».
Questo non è altro che l’epitaffio della Federazione dell’Ulivo, la mitica Fed solennemente fondata il 26 febbraio scorso, cioè meno di cinque mesi fa, per assicurare il «timone riformista» al variegato fronte antiberlusconiano. Che Prodi ha voluto chiamare «Unione» un po’ per amore degli ossimori e un po’ per nostalgia di quella europea che gli è capitato di pilotare in qualche modo da Bruxelles, lasciandola peraltro in malferma salute.
La Fed potrà pure continuare a disporre di uffici e organismi più o meno direttivi, ma il timone del cosiddetto centrosinistra è il partito della Quercia. È difficile chiamarlo timone «riformista» perché il riformismo dei dirigenti diessini è di una intermittenza congenita, causata non solo e non tanto dalla presenza di una forte componente del partito che ancora considera un insulto il termine riformista, quanto dalla incapacità dei vari Fassino e D’Alema di essere nei fatti veramente coerenti con le loro parole. Ne avremo un’altra conferma a metà dicembre, quando la coalizione antiberlusconiana dovrà finalmente partorire il programma di governo da presentare agli elettori. «Il tema del programma - si è appena affrettato ad avvertire Fausto Bertinotti - non verrà risolto dalle primarie», che in autunno dovranno formalizzare la candidatura di Prodi a Palazzo Chigi, salvo naturalmente nuove complicazioni.
Se il programma sarà condizionato con il permesso di Fassino dal massimalismo di Bertinotti, deciso questa volta a partecipare al governo non per lasciarsi imbrigliare, come si illudono i gonzi, ma per condizionarne l’azione più di quanto avesse potuto fare appoggiandolo dall’esterno nei primi due anni della scorsa legislatura, i rapporti di forza fra i partiti della coalizione, e persino al loro interno, saranno dettati dai Ds. Per quanto Rutelli si sforzi di ritagliarsi uno spazio autonomo per attirare elettori del centrodestra tentati dall’astensionismo, il suo partito è stato ridotto dall’accordo tra Fassino, D’Alema e Prodi ad un protettorato della Quercia.


Non a caso, del resto, le candidature elettorali che i prodiani stanno rivendicando fortemente all’interno della Margherita dipenderanno più da Fassino che da Rutelli nella quota maggioritaria dei seggi parlamentari: la più rilevante e decisiva per la costituzione dei nuovi gruppi al Senato e alla Camera.

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