FAVOREVOLE ENRICO GHEZZI

«Ho amato da sempre i jeans - dice Enrico Ghezzi, critico cinematografico e creatore di Blob - per via dell’idea di informe e di anonimità che è sottintesa a essi. Sono pantaloni che si possono macchiare, tagliare... Ricordo gli strappi che apparivano sui miei jeans per le chiavi della Vespa che tenevo in tasca, o per le cadute dalla Vespa...».
Ma i jeans non si buttano...
«No. Li riusiamo. Parlo dei jeans di vecchia marca americana o di imitazione europea anonima. Quelli firmati dagli stilisti sono i più caduchi. I jeans - tessuto da lavoro e da riusare all’inverosimile - in parte sono come il cinema, che noi riusiamo, ripassiamo in continuazione, mentre lui ci ripassa e ci usa. Questa ri-vita, questo ri-uso, ecco il bello dei jeans, sdruciti, calpestati... E il cinema è un enorme jeans, è tutto in jeans».
Proprio tutto il cinema?
«Perché no? In Diavoli alati di Nicholas Ray, e in mille altri film di guerra, aviatori e marines, ma non solo loro, sembrano tutti in jeans. Ovviamente non è così, ma proprio l’uniforme informe - “uninforme”? - è ciò che libera e avvicina qualunque corpo».
Vale anche per lei, nella sua vita di tutti i giorni?
«Tendo a indossare qualunque pantalone, qualunque vestito, come se fosse un jeans. Quello “jeans” è un modo di essere democratico, anche con se stessi. Vale per tutte le icone pop. Personalmente li ringrazio anche per avermi fatto espellere da diverse serate finali del festival di Cannes. Dopo diverse scene di questo tipo, alcuni miei amici registi mi mettevano nel loro cast di attori, per cui il jeans tornava a essere un costume. E così passavo».
Ma i jeans non sono molto conformisti?
«È un legittimo argomento reazionario. Ma è anche il côté totalitario di una moda: 20, 25 anni fa non c’era forse la manìa di ricoprire qualunque cosa con tessuto jeans? Quaderni, diari, bicchieri. Non mi stupirebbe se ci fosse stata una bottiglietta di Coca Cola ricoperta di jeans: le icone pop hanno sempre rapporti incestuosi tra di loro. Ma il jeans è sfuggito a tutto questo».
E come?
«Non si è mai imposto come “l’unica cosa che trovi”, non è mai stata una monocultura. Tra tutte le “dittature” dell’abbigliamento, quella del jeans è stata la più soft. Meglio così.

Dove domina un gusto apparentemente informe è più facile lasciarselo alle spalle – anche questa è la libertà mai avveratasi del jeans, infatti li indossiamo ancora. Perché non sono un vestito, sono un’immagine, un segno neutro e ambiguo».

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