La fermezza del Professore fa sbandare i democratici

Roma«È campagna elettorale», minimizzano nel Pd. Ma intanto i toni si alzano, al contrario di quanto aveva chiesto lo stesso Pier Luigi Bersani nella Direzione di lunedì, e il segretario del Pd va a Lisbona e da lì risponde a Mario Monti che è a Tokyo (e quindi causa fuso orario probabilmente già dorme e non lo sente).
La riforma del lavoro ha «problemi di costituzionalità», e «bisogna stare attenti a come si fanno le norme». Visto che il governo dei tecnici non le sa fare, e mastica poco di Costituzione, «è necessaria una correzione in Parlamento». In ogni caso le norme ancora non ci sono, anche se i ben informati assicurano che il testo del ddl sarà pronto da lunedì. E bisognerà vedere a quale ramo del Parlamento il governo deciderà di affidarlo. Il Pd si prepara a dare battaglia perché l’iter inizi dalla Camera, dove come ricorda il vice-capogruppo Michele Ventura «siedono tutti i leader, da Alfano a Bersani a Casini». Insomma, varare la riforma dell’articolo 18 a Montecitorio darebbe più solennità all’accordo per modificarla che il Pd auspica. Le motivazioni vere, secondo alcuni, sono però diverse: «Al Senato, dove Monti pare intenzionato a spedire il testo, i numeri del centrodestra sono più forti e nel nostro gruppo ci sono i giuslavoristi alla Ichino e una nutrita pattuglia di liberal che vorrebbero probabilmente norme più thatcheriane di quelle della Fornero», dice il senatore Fabrizio Morri. Quindi alla Camera il centrosinistra pensa avere più chance di «tenere» i suoi e di spingere il governo a un’intesa. Possibilità di cui però dubita Paolo Gentiloni: «Ci chiediamo tutti cosa vogliano dire i segnali che sta mandando Monti dall’Asia, dalla minaccia di andarsene alla sfida lanciata oggi ai partiti», ragiona, «io penso che dietro ci sia l’intenzione di tenere fermo il punto e di non smuoversi di un passo dal testo che il governo partorirà. Il che ci creerà degli inevitabili problemi».
Monti insomma starebbe alzando l’asticella, e Bersani la rialza a sua volta: altro che tecnici più convincenti dei politici, «se politici e tecnici non riescono a convincere insieme il Paese» verranno «presi a cazzotti» dal Paese entrambi. Il Professore ormai sta sulla stessa barca dei politici, insomma, e affettare distacco non gli giova. Quanto poi alle affermazioni del premier sui licenziamenti, secondo Bersani il governo parla di cose di cui «non conosce la concretezza: non credo che non si assuma perché non si licenzia abbastanza».
Un ex leader sindacale come Sergio D’Antoni, oggi dirigente Pd, è preoccupato dalla «ostinazione» e dai «ritardi» del governo: «Io non riesco a spiegarmi perché si siano incaponiti a non chiudere un accordo possibile con i sindacati e varare un decreto legge: si sarebbe chiuso tutto in poche settimane», osserva. Invece ora «rischiano di ritrovarsi impantanati per mesi, hanno rinsaldato il fronte sindacale e riaperto anche partite che sembravano già chiuse, come le pensioni, e su cui invece ora si scenderà in piazza».

Già, perché Cgil, Cisl e Uil - con la sponda Pd - si sono ricompattate per chiedere modifiche al provvedimento sulla previdenza, a partire dal nodo ancora irrisolto degli «esodati». Una «inaccettabile conseguenza della riforma Fornero», come sottolinea Cesare Damiano. Sarà la campagna elettorale, ma il Pd oggi sembra un po’ più di lotta, e un po’ meno di governo.

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