Cesare G. Romana
da Viareggio
Non stupisca se, a parte il trionfo annunciato di Renato Zero, che ieri ha concluso il Festival Gaber, il successo più divertito e commosso è toccato a un piccolo gnomo villoso, beffardo e utopista, sul cui nome lattenzione dei critici aveva un po sorvolato. Giobbe Covatta ha reso omaggio a Gaber senza cantarlo né recitarlo: semplicemente raccogliendone il sarcasmo ma anche la passione, ed estremizzando il tutto. Facendoci ridere amaro col dialogo tra il feto dun bimbo negro e quello dun ricco bambino bianco, poi, sbertucciati a dovere i potenti, facendo ascoltare La libertà, linno di Mameli del culto gaberiano, ma ricantata da un coro di bambini ugandesi, per le cui misere sorti da anni Giobbe si prodiga.
Così ecco la platea applaudire allinpiedi, non senza lacrime, commossi lo stesso Covatta ed Enzino Iacchetti, cerimoniere capace di pilotare la rassegna fuor dai binari obbligati della santificazione e della retorica. Rassegna che ha convogliato, alla Cittadella del Carnevale, quasi diecimila paganti, alternando in ricordo di Gaber celebrazione e spasso, parole e note, emozioni e risate. E pazienza se qualche intervento vibrava solo nominalmente di spirito gaberiano: come quello di Rocco Papaleo, ventanni di teatro e di cinema che, non invitato tra i big, si è presentato tra gli emergenti, con autoironia e umiltà. Ma la cui esibizione è corsa più sui binari dellhumour disimpegnato e grassoccio, che dellimpegno civile e satirico di cui il Giorgio fu maestro.
Umiltà, dicevo. Encomiabile anche quella di Luca Barbarossa, che ha dribblato il proprio repertorio per puntare su quello di Gaber e di Brel, grande modello del signor G. Mentre Francesco Guccini ha preferito non cantare, ed ecco ancora lumiltà, impegnandosi in un bellamarcord con Cofferati e Curzio Maltese. E poi ovazioni per Renzo Arbore, assorto e gentile in Non arrossire, poi in tandem con Nicky Nicolai, affiancata dal gruppo jazz di Stefano di Battista e ormai ospite fissa, in tutte le kermesse.
Dovizioso, come si vede, il cartellone di questacclamata tre giorni. Con Massimo Ranieri in forma smagliante, la Cortellesi, la Littizzetto, Oreglio e appunto Zero, perfettamente a suo agio quando cè da intrecciare passione, enfasi popolana e buoni sentimenti: e infatti ha mandato in delirio la platea, calandosi, da camaleonte, nei panni di vice-Gaber come già, in un bellalbum di qualche anno fa, in quelli di vice-Aznavour, di vice-Battisti e di vice-De André. Del resto lidoneità gaberiana non era di rigore, in questa concelebrazione tra i cui officianti cerano infatti gli Articolo 31, Simone Cristicchi (Vorrei cantare come Biagio Antonacci) e Cesare Cremonini, lex Lùnapop.
Il resto? Filmati, rimpianti, ricordi, con qualche sbuffo dincenso che Gaber non avrebbe gradito. E con emozioni veraci. Guccini racconta lamicizia con Giorgio, le notti a tirar mattina tra consensi e dissensi: «Lui era urbano e io montanaro, io più giacobino, lui, da ultimo, molto più morbido, diceva che la mia generazione ha perso e questo non è vero». E Mario Capanna: «No che non è vero, se questa generazione ci ha regalato lui. Che bello se fosse qui, a parlare dellIrak e di Ogm, così di sinistra e così critico anche verso la sinistra, scomodo e prezioso in un mondo basso e confuso». E Ranieri: «Dividemmo il camerino a una Canzonissima, senza mai parlarci, lui era sempre così indaffarato. Poi lo sentii cantare A pizza, a Napoli, da vero attore.
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