Ingegner Aversa, quale sarà il finale della telenovela sul futuro dello stabilimento di Pomigliano d’Arco?
«In questo momento vedo l’addensarsi di nubi. Ma sono ottimista, ritengo impossibile e assurdo lasciarsi sfuggire un’opportunità del genere. Penso che anche le pressioni degli operai sul sindacato alla fine facciano prevalere il buon senso».
Dal suo osservatorio di Londra, Stefano Aversa, presidente di AlixPartners, società che offre servizi di consulenza globale nel settore dell’automotive, commenta con il Giornale la lunga trattativa tra Fiat e sindacati per assicurare un avvenire a Pomigliano d’Arco e, più in generale, gli sviluppi del piano Fabbrica Italia che, per il manager, «è legato a doppio filo con il destino della fabbrica campana».
Non pensa che se la Fiom dovesse tirare troppo la corda gli operai potrebbero in qualche modo ribellarsi? Magari inscenando una sorta di «marcia dei 5mila» per tutelare il futuro delle loro famiglie?
«Dalla marcia dei 40mila colletti bianchi avvenuta nel 1980 alla possibile marcia dei 5mila operai del 2010? E perché no. A unire simbolicamente i due eventi ci sarebbe la volontà di cambiare i rapporti tra lavoratori, sindacati e azienda. Penso, guardando a Pomigliano, che se la Fiat vuole puntare sulla Campania investendo 700 milioni e portandoci un modello come la Panda, centrale nel business del gruppo, questa operazione debba essere considerata come la miglior garanzia per gli operai e tutto l’indotto».
Con il piano «Fabbrica Italia» Sergio Marchionne ha spiazzato tutti. In pochi avrebbero scommesso che il Lingotto puntasse proprio sul Paese in cui ha le radici.
«Anche non considerando l’auto, gli investimenti esteri in Italia hanno continuato a scendere in maniera vertiginosa. Se guardiamo invece il settore dell’automotive, vediamo che la produzione italiana è passata dal terzo al settimo posto in Europa, ed è stata superata da quella di Paesi come la Polonia e la Repubblica Ceca. In una situazione del genere l’occasione presentata da Marchionne non può essere persa. Chi ci piaccia o no, l’Italia compete con Paesi europei, anche dell’Est, che vantano costi operativi inferiori e una flessibilità nel lavoro molto elevata».
Quindi?
«Investire in Italia 20 miliardi di euro per rilanciare la produzione di automobili è un atto estremamente coraggioso e un’occasione irripetibile. Nessuno dei grandi costruttori mondiali investirebbe da noi in questo momento».
Per un certo verso Marchionne, con grande abilità, ha ribaltato il problema sul governo e i sindacati: è un treno che passa una volta sola...
«Marchionne parla molto chiaro ed è un abile negoziatore. Quando metti sul tavolo 20 miliardi e un rischio imprenditoriale non indifferente è scontato che chiedi anche delle concessioni. Prendiamo Volkswagen, cioè l’unico produttore cresciuto negli ultimi anni in Europa e che ha investito molto anche in Germania. Ebbene, ha portato a termine il suo progetto ottenendo più flessibilità dai sindacati tedeschi. Queste organizzazioni hanno capito che un accordo con l’azienda era l’unico modo per salvare la produzione e loro stessi. Il rischio, alla fine, è che a essere iscritti al sindacato siano solo i vari sindacalisti».
E adesso che cosa ne sarà di «Fabbrica Italia»?
«L’inizio del piano “Fabbrica Italia” non è stato dei più promettenti. Pomigliano, comunque, è lo snodo di tutto il progetto. Non penso che l’iniziativa, come concepita da Marchionne, possa essere confermata nella sua interezza senza il tassello Pomigliano».
Perché la scelta di Pomigliano per la futura Panda?
«Esiste una logica industriale. Un modello di grande serie necessita di una fabbrica di tali dimensioni. Ma è un bene anche per l’occupazione, alla luce della tanta cassa integrazione che ha riguardato gli operai campani».
E se Marchionne alla fine si stufasse del tira e molla?
«Il peggiore dei finali: la Fiom non potrà pagare lo stipendio agli operai e a pensare a queste persone sarebbe ancora una volta lo Stato».
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