Correva l’anno 1995. E quanto correvano i cronisti del Giornale, compreso chi vi scrive, a caccia di vip e politici alloggiati a due lire in signorili appartamenti degli enti previdenziali. Corsi e ricorsi. Quindici anni dopo quella memorabile inchiesta giornalistica denominata «Affittopoli» (lodata da MicroMega fino al Washington Post), uno dei protagonisti di quello scandalo, Massimo D’Alema, dimostra di soffrire ancora per la campagna di stampa che lo costrinse ad abbandonare il suo immobile da 633mila lire al mese, di canone, a Trastevere.
Mai in 40 anni di carriera politica D’Alema aveva perso il controllo. Mai aveva urlato in quel modo. Mai s’era permesso di insultare pubblicamente un giornalista, in questo caso il nostro condirettore Alessandro Sallusti, che a Ballarò gli ha ricordato come proprio lui dovesse essere l’ultimo a fare la morale sulle case degli altri. Già, perché la storia della casa di D’Alema in via Musolino a Trastevere tanto chiara non è. È pacifico, perché mai sono arrivate smentite e mai sono state annunciate querele, che D’Alema ottenne quella casa usufruendo di una corsia preferenziale. Corsia che gli permise di scavalcare in graduatoria chi era prima di lui e chi ne aveva più diritto. L’esponente dell’allora Pds riuscì nell’impresa di aggiudicarsi l’ambìto appartamento dell’Inpdap grazie alla presunta intercessione di potenti amici finiti nei guai per la mega inchiesta romana sui Palazzi d’oro. Questo almeno è quello che hanno rivelato all’epoca i protagonisti dell’affaire D’Alema: sindacalisti, dirigenti, coinquilini.
La storia che ancora oggi, a distanza di 15 anni, manda fuori dai gangheri l’ex premier ha inizio nel 1990, anno in cui D’Alema presenta la domanda per ottenere l’appartamento. Nel febbraio del ’91, così come raccontò al Giornale il 3 settembre del 1995 Piergiorgio Sarale, ex segretario confederale della Cgil torinese e membro del Cda degli Istituti di previdenza della direzione generale del Tesoro, durante una normale riunione dei componenti il Cda, tra le delibere da approvare ce n’era una nascosta fra le “varie”, quelle che di solito vengono approvate senza prestarci tanta attenzione. Era la famosa delibera riguardante l’appartamento di via Musolino con la quale si proponeva alla vecchia affittuaria di spostarsi in un nuovo appartamento e di saldare comodamente il debito in comode rate e a tasso zero. E così accadde. Sarale non si rese conto di nulla fino al giorno successivo, quando incontrò un sindacalista di Essere Sindacato, l’ala dura della Cgil che faceva capo a Fausto Bertinotti, che gli disse: «Ti porto i complimenti dei lavoratori e degli sfrattati. Bel socialista che sei... bel venduto». Alla replica piccata di Sarale, il militante duro e puro aggiunse: «Avete approvato quella delibera scandalosa per regalare la casa al compagno D’Alema e adesso caschi dalla nuvole?».
Non si trattava di un appartamento qualunque. La lista degli aspiranti affittuari era lunghissima. Una bella casa, con un canone d’affitto di 633mila lire al mese a due passi dal centro di Roma, non è occasione di tutti i giorni. D’Alema non se la fece sfuggire. Sarale non mosse più un dito e il perché lo spiegò lui stesso: «Ero impaurito. L’invito che ricevetti dai superiori fu quello di starmene zitto e buono (...). Pensare a D’Alema che soffia la casa a un lavoratore bisognoso di un tetto, mi dica lei, che ideale di sinistra è?».
Ma per volontà di chi quella “magica” delibera finì quel giorno fra le “varie” da approvare? Per capirlo basta rileggere le parole che l’ex direttore generale degli istituti di previdenza del Tesoro, Giovanni Grande, coinvolto nell’inchiesta romana sui Palazzi d’oro, fece ai pm nel 1992. Grande spiegò che a raccomandare l’inquilino più famoso d’Italia fu Mario Giovannini, ex Pci, stabile punto di riferimento del partito al Tesoro fin dal 1968 e anche lui coinvolto nell’inchiesta. «Un giorno - disse a verbale Grande - Giovannini mi ha portato Massimo D’Alema (...) per chiedere un appartamento, cosa che io gli ho fatto (...)». E ancora: «Giovannini è nel cda degli istituti dal 1969 (...). Chi l’ha voluto? Chi lo ha imposto? Chi lo ha tenuto per 30 anni? (...) Ho avuto la certezza che Giovannini operasse per conto del Pci-Pds (...). Le contribuzioni, tangenti, chiamatele come vi pare, che Giovannini ricavava dagli imprenditori, finivano in parte a Botteghe Oscure». Lo stesso Giovannini, sentito dai magistrati nel 1993, non nascose la circostanza: «Grande (...) avrà avuto il piacere per altre ragioni di conoscere l’onorevole D’Alema al quale è stato dato un appartamento, ma solo in seguito a un mio intervento».
Finita l’inchiesta del Giornale, mentre tutti gli altri vip, compreso Walter Veltroni, restano nei loro appartamenti previdenziali, D’Alema si presenta al Maurizio Costanzo Show e annuncia che lascerà l’appartamento. Se pochi giorni prima aveva affermato di non aver «goduto di un trattamento speciale o privilegiato», in tv cambia musica definendo «un’ingiustizia che alcuni possono pagare l’equo canone mentre altri, la maggioranza, devono accettare condizioni meno favorevoli».
Questa è la storia che fa infuriare D’Alema, e che tanti si erano dimenticati o non conoscevano perché tanto tempo è passato e perché anche su internet i dettagli erano praticamente irrintracciabili. Se adesso la storia della casa di D’Alema è accessibile a tutti, bisogna ringraziare soltanto lui. Ma non ditelo in giro sennò s’incazza.
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