Un film e una pioggia di libri per il padre del realismo russo

Medici onnipotenti a parte, la morte di Lev Nikolaevic non fu come quella di Ivan Il’ic scritta da lui. Non fu l’anonimo e solitario (ma universale) consumarsi di una candela come tante altre. Fu, invece, e non per sua volontà, una lunga recita cui parteciparono decine, centinaia di persone, anzi un intero Paese. La morte di Tolstoj fu dramma, naturalmente, ma anche commedia, farsa, vaudeville, uno spettacolo itinerante, un circo delle passioni più o meno nobili. In essa, nei mesi e giorni e ore che la anticiparono, che la prepararono, c’è, condensato, il romanzo di una vita. Il monarca che si sentiva ormai prigioniero del proprio regno, quella Jasnaja Poljana che era stata dapprima culla, poi scuola, quindi palestra, rifugio, teatro, a 82 anni intraprese una fuga senza meta, atto di ribellione nei confronti dei doveri familiari e sociali e insieme testamento pubblico. Dal 27 ottobre al 7 novembre 1910, cioè dalla partenza, di nascosto dalla moglie Sof’ja, alla fine in una stanzetta messa a disposizione dal capo della piccola stazione ferroviaria di Astàpovo, furono dodici giorni in cui molti nodi vennero al pettine. Moglie, figli, allievi, seguaci, leccapiedi, nemici, parassiti, adoratori... tutti, fecero i conti con lui, l’artista di Guerra e pace e di Anna Karenina, il satiro impenitente, l’apostolo del cristianesimo pauperista, l’omosessuale mascherato, il pedagogo, il severo patriarca, l’egocentrico capriccioso e molto altro ancora.
Partire da quelle due settimane scarse utilizzandole come piattaforma narrativa su cui depositare l’enorme quantità di materia pregressa è il modo più semplice per raccontare la parabola di un uomo-mondo quale Tolstoj fu. Così sarà nel film The Last Station di Michael Hoffmann? Lo sapremo fra tre giorni, quando il film, dedicato proprio allo struggente tramonto del grande scrittore russo e interpretato da Cristopher Plummer ed Helen Mirren, uscirà nelle sale italiane. Qui, intanto, ricordiamo che tale fu la scelta di Alberto Cavallari in La fuga di Tolstoj, edito nel 1986 da Einaudi e riproposto ora da Skira (nelle librerie da domani). Anzi, Cavallari si arresta sulla soglia dell’agonia del protagonista, limitando il suo racconto-saggio biografico all’arrivo ad Astàpovo e «montando» brani tolstojani, diari dei testimoni più importanti (la figlia Aleksandra e il medico Makovickij su tutti) e quanto di più attendibile i biografi avevano messo a punto in quasi ottant’anni di ricerche.
Chi invece la prende un po’ alla lontana è Jay Parini, l’agente letterario esecutivo di Gore Vidal, in L’ultima stazione (Bompiani, pagg. 400, euro 19,50, traduzione di Lorenzo Matteoli) che dispiega, con un impianto fictional molto più marcato rispetto a quello di Cavallari, l’intero annus horribilis del re Leone.

In una sorta di dibattito a più voci composto da capitoli scritti in prima persona, spiccano, oltre al mattatore e alla sua amata/odiata signora, l’ambiguo aspirante esecutore testamentario (nonché «ministro degli esteri» del tolstojsmo) Certkov, il tremebondo ma fedele medico Makovickij e il segretario Bulgakov.

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