Politica

«Finalmente posso respirare e non piangere tutti i giorni»

L’arresto nel 1988. Poi i processi, la condanna a 22 anni e la malattia

Stefano Zurlo

da Milano

L’urlo nella notte. Un grido agghiacciante. La voce del rimorso che forse l’ha scavato come un baco da seta. Oppure la coscienza disperata di chi si è visto precipitare addosso direttamente dagli anni di piombo il meteorite di una colpa ingiusta. Ovidio Bompressi ha sempre parlato a fatica, anche fisicamente con quella voce che pare provenire dalle regioni remote in cui si è rintanata la sua anima. Aprono uno spiraglio, semmai, le sue poesie, come quella che descrive quell’incubo alla Munch, le parole messe in fila per enumerare i tormenti e il dramma di una vita appiccicata dal giorno dell’arresto, nell’ormai lontano 1988, al delitto che segnò l’inizio del terrorismo e degli anni di piombo.
La vita di Ovidio Bompressi è rimasta schiacciata in questi 18 anni nelle tenaglia del racconto, dettagliatissimo e insieme sdrucciolevole, di Leonardo Marino e della lucida, orgogliosa, apparentemente arrogante, autodifesa di Adriano Sofri. In mezzo, c’era sempre lui, alla ricerca di una via d’uscita dignitosa. E sempre si ritrovava al punto di partenza, quella mattina del 17 maggio 1972 in via Cherubini a Milano: la Cinquecento guidata da Marino che si ferma, lui che scende, spara alla schiena del commissario Luigi Calabresi, risale in macchina, butta la Smith & Wesson sul sedile posteriore e mormora solo due parole: «Che schifo». In quel momento, se è vera la ricostruzione offerta sedici anni dopo da Marino, Bompressi comincia ad espiare.
Se non è così, Bompressi finisce nel gorgo nel 1988. L’arresto, il carcere, il processo rompicapo. Si ammala. Le sentenze vengono allineate sul pallottoliere, fino alla condanna definitiva per omicidio. Qualcosa nel suo organismo fragile si rompe, entra ed esce dal carcere in un vortice di provvedimenti, sospensioni, latitanze, arresti domiciliari, ricoveri fino a sfiorare la morte. «In carcere - spiega - il mio corpo rifiuta di comportarsi in modo normale, mentre la mente continua a conservare in pieno tutte le sue facoltà». È il corpo la sua prima prigione.
Bompressi cerca una qualche soluzione, chiede due volte la grazia, ma è difficile orientare la bussola nella tempesta magnetica permanente delle lobby che si scontrano e non ammettono soluzioni patteggiate. La sua vita resta inchiodata alla tragedia dei Calabresi, anche se le vittime decidono signorilmente di chiamarsi fuori dalla bolgia. Tace la signora Gemma, rimasta vedova a tre anni scarsi dal matrimonio celebrato a Milano nella chiesa di San Pietro in Sala, tacciono i figli: Mario che perse il padre all’età di 2 anni e 3 mesi, Paolo, che aveva solo 11 mesi, e Luigi che il papà l’ha visto, solo in foto. In quelle foto con i maglioni a collo alto che tutti noi abbiamo scrutato chissà quante volte nei telegiornali. La famiglia, ritualmente interpellata a proposito della grazia, ha riempito il modulo inviato dalla questura affidando rispettosamente alle istituzioni la soluzione del problema. E mostrando un alto senso dello Stato che è altra cosa rispetto al perdono. I giornali invece hanno continuato a intervistare il sempre più affilato Bompressi, confinato nella sua casetta di Massa, vicino alla ferrovia, e pochi chilometri più in là a Bocca di Magra, il suo grande accusatore, l’arruffato venditore di frittelle Leonardo Marino; e ancora a un tiro di schioppo, il presunto mandante Adriano Sofri, chiuso nella cella del Don Bosco di Pisa, trasformata per un prodigio umano in fucina letteraria.
Ora è finita. Almeno per lui, giunto al cartello anagrafico dei 59 anni e con un lavoro di catalogatore per l’Istituto storico della Resistenza di Massa. L’Italia in bianco e nero viene restituita, come è giusto che sia, agli anni Settanta. «Finalmente posso respirare e non piangere tutti i giorni», dice lui, la voce rarefatta, provando a riemergere come un palombaro. «Ovidio è felice e ringrazia tutti - aggiunge la moglie Giuliana - ma mio marito non vuole rilasciare dichiarazioni. Siamo talmente storditi dopo tanti anni. Non festeggiamo, non facciamo nulla».

Comunque sia andata, questa conclusione strascicatissima arriva tardi anche per lui.

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