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Finito l’anno delle grandi paure, ma la Ue è divisa

Un anno vissuto pericolosamente, il 2010, per l’Europa e la sua moneta unica. Le peggiori paure degli euroscettici, o meglio degli eurorealisti, si sono avverate nell’anno che sta per concludersi nel segno di un terzo Paese in gravi difficoltà, il Portogallo, dopo Grecia e Irlanda. L’euro ha traballato come una nave nella tempesta. Non tanto in termini di raffronto con le altre monete, perché un cambio di 1,30 dollari è forse fin troppo alto (l’abbiamo visto intorno a 0,80 nel 2000); quanto in termini di solidità dell’architettura monetaria comune. Due piccoli Paesi dell’Eurozona, con economie totalmente diverse fra di loro, hanno regalato brividi da paura. Un terzo piccolo Paese ora traballa. Sono solo avvisaglie di una crisi più vasta? Il 2011 si dimostrerà anno ancor più pericoloso del 2010?
Grecia e Irlanda sono entrate in crisi per questioni profondamente diverse. Atene aveva propinato agli uffici statistici europei dati taroccati, fasulli, che non hanno retto alle verifiche. E si è così scoperto che il deficit greco si avvicinava pericolosamente al 10% del Pil, e che le finanze statali erano ben più dissestate del previsto. Evasione fiscale mostruosa, gonfiamento abnorme dell’organico dei dipendenti pubblici, baby-pensioni, corruzione: queste le colonne portanti della crisi greca, che ha richiesto all’Europa e al Fondo monetario internazionale un bailout, un salvataggio da 110 miliardi di euro in tre anni. E forse non basteranno, tanto che le ultime voci parlano di una ristrutturazione del debito greco. Moderata, probabilmente, ma pur sempre scioccante, dato che proviene da un Paese dell’area euro.
Quella dell’Irlanda non è stata una crisi di crescita economica, o di conti pubblici allo sbando. É stata una crisi bancaria. Il deficit 2010 al 32% del prodotto lordo, la cifra più elevata mai vista in Europa, è figlio del dissesto bancario: senza i fondi iniettati nel sistema bancario, il disavanzo sarebbe stato dell’11%, sempre elevatissimo ma non stellare. Con la nazionalizzazione della Allied Irish Banks, definita negli ultimi giorni, il sistema creditizio dell’isola verde è diventato pubblico. Gran parte dei 90 miliardi di euro mobilitati dal fondo «salva stati» a favore di Dublino, servirà per finanziare la pubblicizzazione delle banche. Ma c’è anche da considerare che la crescita economica irlandese proviene essenzialmente dall’estero, e senza il mantenimento dell’aliquota fiscale agevolata per gli investimenti stranieri, il Paese sarebbe piombato in una profonda recessione. La differenza fra i due Paesi è marcata dalle manifestazioni di piazza e dagli scioperi: Atene è stata messa a ferro e fuoco, Dublino no. E comunque, lo scambio tra finanziamenti e rigore fiscale è risultato molto vantaggioso per le banche e assai penalizzante per i cittadini dei due Paesi.
Alla crisi l’Unione europea e la Banca centrale europea hanno risposto con titubanza politica e pragmatismo tecnico. La creazione del fondo salva stati da 750 miliardi decisa in giugno è stata giudicata tardiva ed esitante. Nonostante il salvataggio della Grecia, giunto con la partecipazione attiva del Fondo monetario internazionale, gli spread dei titoli pubblici fra il bund tedesco di riferimento e i bond dei Paesi periferici sono ancora aumentati. I credit default swaps, prodotti finanziari derivati per coprirsi dai rischi Paese, sono diventati più costosi. A fronte di questa situazione, la Bce ha reagito senza dogmi, non solo mantenendo ai minimi storici i tassi ma acquistando (contro i termini dei trattati Ue) titoli di debito dai Paesi in difficoltà. Di fatto, ha finanziato i disavanzi.
Il 2010 è dunque diventato l’anno dei tabù infranti. Governi euro che rischiavano (e alcuni rischiano ancora) di non far fronte agli impegni, cancellazione di fatto della clausola no bailout (niente salvataggi), Bce che non si occupa solo di stabilità dei prezzi ma interviene pesantemente nella crisi. L’unico tabù non infranto è quello che vede i Paesi europei sempre divisi nella ricetta anticrisi. Il recente Consiglio europeo di Bruxelles ha segnato una frenata, di marca essenzialmente tedesca, a un maggiore coordinamento fra i paesi di Eurolandia. La sensata proposta Tremonti-Juncker di un’agenzia europea del debito, che potesse emettere eurobond garantiti da tutti i paesi dell’Eurozona, è stata respinta dalla cancelliera Angela Merkel.

Incominciato nel segno della crisi della Grecia, proseguito con il salvataggio dell’Irlanda, l’annus horribilis si chiude così nel segno dell’incertezza sul futuro di altri Paesi, Portogallo e forse Spagna. Il 2011 si annuncia, insomma, tutt’altro che tranquillo.

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