Concediamo pure a Walter Veltroni, per la situazione nella quale ha dovuto ieri arringare i suoi, tutte le possibili attenuanti. Leader d’un partito da poco nato e già decrepito, Veltroni s’è dovuto confrontare con una valanga giudiziaria di dimensioni immani: e ha ritenuto di poter galleggiare sul disastro grazie a quella zattera che si chiama “questione morale”. Forse s’illudeva così di non pagare il dazio politico e morale del disastro.
Walter ha declamato frasi orgogliose («siamo un partito di persone per bene»), minacciato rigori virtuosi, annunciato alternative drammatiche («o l’innovazione o il fallimento»). Tutto con l’aria indignata di uno che al timone della sinistra fosse arrivato qualche ora fa, invocato per l’emergenza, e si fosse trovato d’improvviso davanti allo sfascio: non il dirigente di lungo corso cresciuto nel comunismo e via via affermatosi nel postcomunismo.
In contingenze come quelle attuali la “questione morale” non può essere un alibi, una di quelle vaghe formule multiuso nelle quali la sinistra è specialista. Il Pd non deve sperare di trarsi fuori dalle secche in cui si dibatte issando il vessillo di una ipotetica futura purezza e quindi usando la questione morale come un passepartout. Non lo fu, se non per chi proprio voleva crederci, nemmeno ai tempi di Enrico Berlinguer e del suo Pci. Ma adesso meno che mai.
La realtà impone al Pd alcune scelte precise. Quando, in un’ondata di elezioni favorevoli, la sinistra conquistò la maggioranza dei centri di potere locale, favoleggiò dell’avvento d’una amministrazione più onesta. S’è visto e si vede. Con il voto d’Abruzzo, la gente comune ha inviato al Pd - parole di Veltroni - «una protesta dura e rabbiosa». Disastro alla periferia dopo quello che fu il disastro di Prodi al centro.
Veltroni avrebbe voluto essere il redentore della sinistra umiliata, e invece è stato umiliato dal suo alleato Antonio Di Pietro: umiliato a tal punto che il ministro ombra delle riforme, Sergio Chiamparino, s’è dimesso dal nulla, perché perfino quel nulla era deludente. Tant’è vero che poi ci ha ripensato. E il sodale-rivale Massimo D’Alema avverte, in buona sostanza, che la questione morale è una finzione, o almeno diventa tale se serve per nascondere la debolezza politica.
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