E di sicuro Fiorello si è divertito come un matto girando le scene di Passione, specie quando si è messo a cantare Caravan petrol (in playback però) a spasso su di un gigantesco mulo in quel cratere pasoliniano che è la Solfatara di Pozzuoli. Un film sulla canzone napoletana, ebbene sì. E probabilmente si divertiranno tutti, sabato alla Mostra del Cinema di Venezia, a vedere questo docufilm al quale lattore John Turturro (cocco di Spike Lee e dei fratelli Coen, padre barese, madre siciliana) ha dedicato un bel po di lavoro con lumiltà di chi entra bussando in un mondo che non è suo. Intanto bisogna levarsi dalla mente i luoghi comuni, sapete quelle cose tipo pizza e mandolino, che accompagnano uno dei linguaggi più significativi del mondo, unautentica cronistoria geopolitica ancor più che sociale o semplicemente musicale che da Federico II, ossia Milleduecento, arriva fino agli Almamegretta e a Gigi DAlessio. E poi cè da spurgarsi dal confronto con il cinema napoletano che dagli anni Venti fino ad ora, da È piccerella della Dora Film dei Notari passando per Totò, Eduardo De Filippo e Mario Merola, ha segnato i confini di qualsiasi set sotto il Vesuvio. Insomma, forse meglio di tutti, più libero e più spontaneo, può farlo John Michael Turturro, un attore e regista dal pedigree hollywoodiano ma sangue meridionale e che, quando si siede per esempio ai tavoli della Trattoria Medina a due passi dal Maschio Angioino, si sente a casa propria unendosi ai canti della «posteggia» davanti a un bicchiere di Aglianico. Certo, il merito è anche di Federico Vacalebre del Mattino, che ha avuto la bussola musicale per orientarsi tra le tremila canzoni ascoltate da Turturro e lesperienza critica per sganciarsi dai cliché. Difatti il regista qualche tempo fa ha detto: «Non si tratta di uno show di varietà e nemmeno di unenciclopedia della melodia partenopea. Ho voluto valorizzare anche brani poco conosciuti e sottolineare le contaminazioni con le altre lingue, come larabo».
Insomma, in Passione non cè la Napoli banalizzata e metabolizzata in mondovisione, o non cè solo quella. E le canzoni sono piccole sceneggiature che si accostano luna allaltra, entrano ed escono da immagini ripescate negli Archivi Luce o dalle preziosissime Teche Rai, diventano alla fine il fil rouge di una specie di Buena Vista Social Club che ha laggio di defolclorizzare Napoli e presentarla artisticamente per quello che è: uno sterminato juke box che dal Canto delle lavandaie al Vomero attraversa secoli virtuosi od opachi e si cristallizza infine nelle registrazioni del Novecento, gracchianti e vere. Daltronde la prima casa discografica italiana è nata proprio qui, oggi si chiama Phonotype Record ma nel 1901 il suo nome era Eterfon, frutto della follia imprenditoriale di un Raffaele Esposito che riuscì persino a costruirsi uno stabilimento per la fabbricazione dei dischi. E da lì, via Enrico De Marinis 4, la musica napoletana ha iniziato a viaggiare per il mondo, arrivando negli Stati Uniti con Caruso e Gigli, travasando il proprio repertorio in quello di artisti che più lontani non potevano essere, rimpolpandosi di influenze fino ad arrivare rinnovata alla Nuova Compagnia di Canto Popolare di Roberto De Simone, a Napoli Centrale di James Senese, anche agli Almamegretta o ai 24 Grana. Perciò in Passione sfilano i cantanti che oggi sono i testimonial della tradizione, per prima linattesa Mina che apre con una vecchia registrazione di Carmela composta da Sergio Bruni. E poi Pietra Montecorvino, Massimo Ranieri con Lina Sastri, Peppe Servillo assieme agli Avion Travel e via andare con un catalogo ancora impressionante per vividezza. In fondo in quel microcosmo insospettabilmente macro che è la canzone napoletana, poetica assai e soprattutto mai cinica, scorrono tutti i sentimenti che dal melodramma al pop da centanni in qua disegnano la canzone popolare, dal sesso alla gelosia, dallamore allimmigrazione fino alla protesta mai politica, sempre vitale.
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