Piercamillo Falasca*
Fin dal 1994, col programma di politica economica di Forza Italia, poi nel 2003 con la grande riforma solamente tentata delle due aliquote Irpef (al 23 e al 33 per cento), e ancora con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa nel 2008 e lo scudo fiscale nel 2009, Silvio Berlusconi ha saputo individuare nel fisco la grande ferita aperta degli italiani, la big issue su cui intessere il dialogo con gli elettori.
In questo scorcio di 2010, l’annuncio del premier di una profonda riforma fiscale ha il sapore dell’ultima chiamata. Non è troppo enfatico ritenere che il giudizio che gli scienziati politici daranno dell’epopea berlusconiana, quando il Cavaliere lascerà la politica attiva, sarà probabilmente condizionato dall’esito di questa nuova promessa.
Ma su un punto gli analisti s’interrogheranno sicuramente: sebbene molti (per non dire tutti) tra i maggiori leader politici nostrani abbiano sovente dichiarato di considerare intollerabile il livello di pressione fiscale sofferto dagli italiani, solo il Cavaliere ha saputo toccare quelle corde che gli hanno permesso di apparire, agli occhi dell’opinione pubblica, come il politico più seriamente convinto della centralità del tema. Come ha fatto? A differenza di altri leader, Berlusconi ha avuto negli anni un approccio tranchant verso le tasse: ha spesso ricordato di volerle tagliare a tutti indistintamente, lavoratori e imprese, autonomi e dipendenti; ha sottolineato come la riduzione del carico fiscale non possa che essere finanziata con la riduzione della spesa pubblica; nell’evasione fiscale da sempre individua un effetto dell’elevata pressione fiscale, non una causa.
Di fronte ai sofismi di quanti propongono tasse sui privilegi per finanziare riduzioni selettive, o invocano principi di efficienza fiscale cui sottoporre i piani di riforma, la visione più squisitamente liberale di chi chiede indistintamente «meno tasse per tutti» - per usare ancora una categoria di matrice berlusconiana - ha forse il difetto di apparire semplicistica e poco «scientifica», ma è sicuramente quella che gli italiani comprendono meglio. Probabilmente perché è l’unico approccio possibile per contrastare lo stato di emergenza fiscale in cui vivono.
Trentacinque anni fa gli italiani cedevano al fisco un quarto del Pil. Venticinque anni or sono si era arrivati a un terzo, il 33,6 per cento. Già dieci anni dopo, nel 1995, il livello era ormai del 40 per cento. Da allora in poi, alcune importanti economie Ocse invertivano il senso di marcia (la Germania e l’Irlanda, ma anche i Paesi Bassi e la Polonia) e altre rallentavano comunque il trend di crescita (gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia): non l’Italia, che ha continuato a galoppare, peggiorando una situazione già compromessa e superando il 43 per cento di pressione fiscale nel 2008 (un valore sostanzialmente confermato dalle stime relative all’anno appena concluso). Come a dire: in un anno di 365 dì, gli italiani lavorano per lo Stato fino al 157° giorno e guadagnano per sé solo dal 7 giugno in poi, mentre i contribuenti tedeschi e inglesi sono liberi dal 14 maggio, gli irlandesi dal 28 aprile. Una bella differenza.
Superate Francia e Austria, secondo le previsioni per il 2009, il Bel paese occuperà un solido quarto posto tra i Paesi con la più alta pressione fiscale: segue da vicino Danimarca, Svezia e Belgio, ma con un welfare state e una macchina burocratico-amministrativa nemmeno lontanamente paragonabili a quelli di queste realtà.
Nel Paese che si fregia di essere la patria di milioni di piccole e medie imprese, il fisco d’azienda è famelico: come riporta Andrea Giuricin nel volume Dopo! - Come ripartire dopo la crisi (edito da Ibl Libri), dopo la Germania l’Italia ha la maggiore tassazione sui profitti d’impresa (37,5 per cento,17 punti in più della media Ue). Eppure ridurre le tasse sui profitti, anche attraverso una contestuale riduzione dei sussidi alle imprese, non sarebbe un favore ai «padroni», ma una spinta alla creazione di ricchezza, all’aumento dei posti di lavoro e all’attrazione di nuovi investimenti.
Va peggio ai lavoratori dipendenti. Uno studio della Banca centrale europea di qualche anno fa (Wp n. 747 del 2007) stimava al 65,8 per cento - leggasi: due terzi - la quota di reddito di un lavoratore dipendente che lo Stato preleva con le imposte dirette o indirette o comunque intermedia forzosamente, con i contributi. Il confronto con altre realtà - l’Irlanda (44,8 per cento), gli Usa (37,3) o la Spagna (54) - è purtroppo impietoso. Riportato sul calendario, possiamo dire che se la libertà dal fisco è raggiunta a giugno, la piena libertà dalle scelte dello Stato è possibile solo il 29 agosto.
Si dirà: includere i contributi nel calcolo significa considerare una quota di ricchezza di cui un lavoratore beneficerà negli anni della pensione. Ma pur sempre di soldi sottratti alla sua disponibilità si tratta, tanto più se consideriamo i rischi crescenti cui il comparto previdenziale pubblico sarà soggetto negli anni a venire.
Per Berlusconi, a maggior ragione dopo la spiacevole aggressione di dicembre, una robusta riduzione fiscale sarebbe il coup de théâtre possibile per coronare la sua cavalcata politica. Per il futuro dell'Italia, è una necessità.
Piercamillo Falasca
Ricercatore Istituto Bruno Leoni
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