La fitta agenda del Colle e il "presidenzialismo" di Giorgio Napolitano

Altro che ruolo di garanzia e controllo, il Colle ha una vera agenda politica: spara bordate a destra e sinistra, litiga con l’Ue, incontra il Papa e vuol indirizzare la strategia sugli Esteri. Ma dove vuole arrivare il Quirinale?

La fitta agenda del Colle 
e il "presidenzialismo" 
di Giorgio Napolitano

Un galantuomo di questi tempi non può neppure godersi la pensione. Una vita passata nei corridoi di Botteghe Oscure, a sfuggire alle battutacce di Pajetta e agli sguardi di Togliatti, resistendo a tutti i tranelli di quella vecchia chiesa rossa e laica, viaggiando tra Mosca e Washington, tra miglioristi e berlingueriani e poi un giorno ti spediscono al Quirinale, dove si respira, con la speranza di svernare senza troppi grattacapi. E invece, questa sfaccimm’ e politica, qui si sta peggio che in un call center. Tutti che chiamano, tutti che chiedono, ogni giorno un intervento da fare, una botta al cerchio e una alla botte, i compagni piagnucolano, quello, il Cavaliere, che ogni momento ne inventa una nuova e poi i magistrati, i colonnelli in congedo, gli intellettuali golpisti, Obama che telefona e ancora non ha capito come funziona il fuso orario, i sindacati, l’Unità d’Italia, la Banca d’Italia, gli impiegati delle poste, gli alpini, le feste comandate, quelle soppresse, la bandiera di tre colori, Fini, Schifani, la Marcegaglia, i giovani, i giovani precari, i giovani senza illusioni, i giovani ormai diventati vecchi. L’onorevole presidente Giorgio Napolitano ha capito in fretta che questo lavoro era una fregatura. Il Quirinale non è un colle per pensionati.

Non ci credete? Guardate la sua agenda. Sabato 30 aprile. Enfatizzare che il lavoro è lavoro. Domenica 1 maggio. Informarsi se lavorando il giorno della festa dei lavoratori ti pagano doppio. Lunedì 2 maggio. Commentare con Obama la morte di Bin Laden; ricordarsi che Leon Panetta capo del Pentagiono è di Siderno, provincia di Reggio Calabria; incontrare il patriarca maronita di Antiochia; far sapere a Travaglio che non ha mai telefonato a Bersani per convincerlo a votare la mozione sulla Libia (si è limitato a inviare un sms). Martedì 3 maggio. Stirare la giacchetta che gli tirano da tutte le parti (notare manica destra). Mercoledì 4 maggio. Lenire i sensi di colpa su Antonio Giolitti («su di lui nel ’56 sbagliai») e approfittare dell’occasione per dirne quattro al Pd: «la sinistra o cambia o resterà all’opposizione per sempre». Giovedì 5 maggio. Parlare una ventina di minuti con il Papa prima del concerto in onore del sesto anno di pontificato. Venerdì 6 maggio. Questa maggioranza non è più la stessa. C’è un’invasione di «responsabili sottosegretari». Urge nuova fiducia. Sabato 7 maggio. Ristirare la giacchetta (sbrillentata manica sinistra). Fare un brindisi con gli alpini. Domenica 8 maggio. Nessuno tocchi i magistrati. Lunedì 9 maggio. Bacchettare la Ue: «Insufficiente nelle crisi internazionali». Obama dall’altra parte del telefono ringrazia. Sbattere i pugni sul tavolo e ricordare a questa massa di giornalistucoli pettegoli che «il presidente della Repubblica non ha avuto negli ultimi giorni colloqui o discusso della situazione politica con esponenti della maggioranza e dell’opposizione o con personalità parlamentari. Con nessuno, né in pubblico né in privato» (ricordarsi di fare la carica per gli sms).

E poi dicono che fare il presidente è una pacchia. Lavoro, lavoro, lavoro. Tutti i giorni, come quasi nessuno mai. Qualcuno gli ricorda che il buon Cossiga buttò giù macerie a cariche di esternazioni, ma la fatica di Napolitano è forse ancora più dura. Il suo predecessore almeno si sfogava. Era un’attività che liberava energia, una sorta di anti stress. Bum. Giù un pezzo di scudocrociato. Sbam. Via tutto il vecchiume della prima repubblica. Ta-ta-ta-tam. Una mitragliata contro le ipocrisie dell’aristocrazia togata. Stoc. Uno sganassone ai compagni socialisti e un altro ai compaesani del Bottegone. Cossiga era un picconatore. Napolitano è un architetto, un restauratore, uno che cerca di tenere insieme i pezzi, che trama, cuce, cerca di rinforzare quel che resta delle fondamenta, ridipinge i muri, fissa sostegni, si muove a destra e a manca per ridisegnare un nuovo equilibrio, improvvisa esperimenti di statica e dinamica. Solo che tutto questo attivismo, come spesso accade, non si sa mai bene dove può portare.

Le conseguenze delle azioni sono infinite. Tocchi un sostegno e si apre una breccia improvvisa. Tenere in piedi questa baracca dove tanti strepitano e i confini tra i poteri si fanno indistinti, dove chi governa per fortuna ancora lo decidono gli elettori, ma la tentazione di commissariare la democrazia non manca, non è impresa facile. Questo lavoro di sostegno e architetture è tutt’altro che anti stress. I pensieri ti si accavallano in testa. Altro che lavoro per pensionati.

Gli avevano detto di andare al Quirinale, ma se solo avesse sospettato la fatica sarebbe scappato in qualche bar di paese a giocare a carte. Caspita, mica glielo avevano spiegato che questa è una Repubblica presidenziale.

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