FLEUR JAEGGY «Osservare la natura in cerca dell’Assoluto»

La scrittrice questa sera al Dal Verme presenta il suo racconto inedito L’erede: «Parla dell’eredità spirituale che una donna lascia a una bimba»

Ci sono persone che riempiono il vuoto con il silenzio. O con poche parole, trasportate da mondi lontanissimi, al di qua di un invisibile confine. O con un libro, se sono scrittori. Un libro che, di solito, non hanno alcuna fretta di vedere pubblicato. Fleur Jaeggy - autrice tra l'altro de I beati anni del castigo (1989), La paura del cielo (1994) e Proleterka (2001), tutti pubblicati da Adelphi, tradotta in venti Paesi e traduttrice di Marcel Schwob e Thomas De Quincey - è una di queste persone. Perciò non concede interviste, anzi, forse non ha concesso nemmeno questa: «Se riuscisse a dire che non ha trovato la signora e l'intervista non uscisse, sarebbe molto meglio».
Ha soltanto pensato a voce alta, Fleur Jaeggy, e noi abbiamo preso qualche appunto. Così ci ha rivelato la trama del racconto che presenterà stasera alla Milanesiana, un inedito dal titolo L'erede: «Tra una signorina di una certa età e una bambina avverrà il passaggio di una strana eredità, spirituale, potremmo dire. Tra le due non vi è nessuna parentela. Anzi, la bambina è una specie di derelitta, dotata di una grande forza di volontà. Un nesso con l'Assoluto? Sì, forse ascoltandolo lo si potrà trovare».
Quale assoluto cerca Fleur Jaeggy?
«L'assoluto appartiene ai mistici, che sono tra le mie principali letture. Angela da Foligno ad esempio scrive “L'anima non può godere di una vista più bella in questo mondo che osservare il proprio nulla e starsene nella sua prigione”. Definizione perfetta per l'assoluto».
Una ricerca da fare in solitudine.
«Io non so neppure cosa voglia dire sentirsi soli. In questo tipo di esercizio, si sta nella propria stanza, si legge, si osserva la natura».
Non sembra un esercizio che appartenga al mondo, oggi.
«Ci sono in tutti i tempi persone fatte così. Per anni ho frequentato padre Giovanni Pozzi: un grande studioso e un francescano, che aveva fatto voto di povertà. L'assoluto non può essere una preoccupazione del mondo come lo sono la politica, o la morte. Tuttavia quando scrivevo I beati anni del castigo pensavo che, fra tutti, gli adolescenti sono quelli più attratti dall'assoluto. È una ricerca di cui fanno parte anche certe malattie adolescenziali».
E la scrittura la porta mai verso l'assoluto?
«Non potrei dire che cosa cerco nella scrittura. Posso dirle che cosa trovo nella lettura, invece. In Suor Juana Inés de la Cruz, in Robert Walser, in Celan o in Riccardo di San Vittore. Lo zen e il tiro con l'arco, di Eugen Herrigel, ad esempio, è un esercizio mistico perfetto».
Lei vive a Milano da molti anni. La città la ispira?
«Dalla mia finestra non si vede nulla di Milano. Si vedono soltanto il verde e il cielo e il mio terrazzo con molte piante, il luogo di elezione della mia gatta greca».


Della città non ha mai nostalgia?
«Mi manca il mercato dei fiori, la domenica, in centro. Ho visto tante persone anziane comperare una piccola piantina per pochi soldi. Le immaginavo tornare a casa e curarla. E poi tornare ancora, la settimana dopo, per aiutare la solitudine a passare».

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