Due milioni di italiani intelligenti e fortunati (poco più dell8% di quelli che avevano la tv accesa) hanno potuto assistere, mercoledì sera in prima serata su Raiuno, alle prove generali di un programma che non andrà mai in onda. Pochi gli spettatori - ragionano i ragionieri di viale Mazzini -, troppo alti i costi, e soprattutto troppi neuroni in libertà. La tv ci vuole stupidi più di quanto noi vogliamo una tv stupida.
Il mio canto libero - questo il vero titolo della più bella prima serata degli ultimi ventanni - è stata unesperienza pressoché unica, e suprema, di errori, eruzioni ed eccessi. «Al diavolo la scaletta», come giustamente ha inveito Vittorio Sgarbi mostrando al pubblico come si scardina un palinsesto: perché Il mio canto libero è lirruzione della libertà dentro la forma, cioè della creatività irrazionale dentro la mediocre razionalità del format - proprio ciò che Sgarbi ha detto, e giustamente, dei suoi maestri: Cossiga, Carmelo Bene, Pasolini, Walter Chiari, Federico Zeri, Arbore, Buster Keaton.
La televisione è un flusso continuo di immagini amorfe: la forma della tv è il senza-forma. È un narcotico che agisce in una doppia direzione: verso chi guarda e verso chi è guardato. Qualsiasi cosa entri in tv, smette di essere reale. Guardiamo quello schermo oramai in ogni senso ultrapiatto con la stessa passione con cui guarderemmo loblò di una lavatrice.
Laltra sera, invece, qualcosa è improvvisamente apparso ai nostri occhi, la tv si è inverosimilmente accesa: qualcosa di ruvido, di urticante per i pornografi assuefatti al varietà, al quiz e al reality; qualcosa di sbagliato e dincongruo pur nella familiarità dellambientazione (il grande studio, il palcoscenico, lorchestra). Larte è precisamente quella frattura nellordine razionale delle cose che ci induce a riflettere o, comè successo mercoledì, a cambiare canale. La bellezza, come la libertà, prima di tutto fa male, dà fastidio. Soltanto un popolo intellettualmente corrotto come il nostro può scambiare la bellezza per una scatola di cioccolatini.
Tutti gli errori di Sgarbi, tutte le imperfezioni del programma, le sue ingenuità e le sue temerarietà, tutto quanto cera di sbagliato nel Canto libero è parte integrante della sua perfezione. Dallinforme abbiamo visto sorgere sotto gli occhi dello spettatore - e fra i tanti meriti televisivi di Sgarbi cè anche quello di aver ridato dignità e senso alla diretta - autentiche perle di assoluta bellezza (come il videopoema I giovani non esistono), involontarie parodie di Saviano (il dipietrista Vulpio contro leolico in Puglia), rendiconti personali (Oliviero Toscani e Salemi), introspezioni travestite da people show del pomeriggio (il figlio in studio e il padre in collegamento), omaggi ai «padri» e ai «padrini», discussioni teologiche sul sesso di Dio, parodie musicali spacciate per vere (Morgan, maltrattato e senza voce). E naturalmente, e soprattutto, un continuo, ininterrotto, strepitoso e sfacciato parlare di sé, soltanto di sé, esclusivamente di sé: il Canto libero è il primo programma in cui conduttore, ospite e tema della puntata coincidono. Anche per questo è un capolavoro.
Hanno vinto le capre, e la televisione torna ad essere una lavatrice. Gli esperti diranno che non poteva andare diversamente, e che per esperimenti del genere bisogna andare sul satellite, o in terza serata, o su una rete minuscola.
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