La folle ritualità dei concerti

Il ritardo è rock. Sempre stato così. Minuti, ore, qualche volta giorni: Woodstock addirittura è finito il giorno dopo le previsioni, quindi fate voi. Ma i Guns N’Roses battono tutti: minimo un’ora. L’altra sera, al Palalottomatica di Roma, 96 minuti netti, tempo di valore europeo. Al Festival di Reading, un’ora. A Dublino pure qualche minuto di più. D’accordo, una band che sale sul palco spaccando il cronometro avrebbe un nonsoche di impiegatizio, roba da giacca e cravatta pendant. E figurarsi se, ai bei tempi, gente come Led Zeppelin o Black Sabbath o Who oppure, dopo, Nirvana e Motley Crüe avessero sempre timbrato il cartellino con precisione assoluta: addio fascino. E anche ora, che siamo nel basso impero del rock e la vera trasgressione è il rispetto delle regole, un bel ritardo non se lo nega nessuno.
L’anno scorso a Roma i Rolling Stones, dicesi ormai i più svizzeri delle rockstar, hanno iniziato oltre mezzora dopo il previsto, robetta in fondo. Lenny Kravitz a Brescia, poi: un’oretta anche lui. E, per restare sempre in Italia, negli ultimi mesi hanno ritardato in tanti, da Marco Carta a Francesco Renga, tutti più o meno accettabili e nessuno ai livelli di Loredana Bertè che nel 2007, a Marina di Pietrasanta, è arrivata cento minuti dopo l’orario previsto e comunque in carriera ha toccato anche punte di tre ore.
Poi c’è anche il cosiddetto «ritardo ex post» come quello di Bruce Springsteen a San Siro che - e nessuno meglio del pubblico rock può capire queste improvvisazioni - si stava divertendo così tanto sul palco da suonare ben oltre i limiti fissati dai regolamenti (e leggendario il promoter Claudio Trotta di Barley Arts che per questo ha pure sopportato un processo). In poche parole, il ritardo è fisiologico, fa chic e generalmente non impegna, per di più crea pure quell’aura di mistero e vizio che ai rockettari (e non solo: esempio Missy Elliot a Hyde Park) piace molto. Ma se una trasgressione si trasforma in regola è banale.
E i Guns N’Roses hanno inventato il ritardo bancario, più puntuale di una bolletta e anche più noioso.
Qualche anno fa a Madrid iniziarono il loro show con tre ore di ritardo, e il pubblico inferocito aveva già tirato un bel po’ di seggiole sul palco. Quest’anno al Festival di Reading gli organizzatori hanno staccato la corrente elettrica nei tempi previsti dal contratto, costringendo band e cantante a salutare la folla con un patetico megafono stile assemblea sindacale anni ’70. A Dublino c’erano più arrabbiatissime bottiglie vuote sul palco che per terra. Sabato sera al Palalottomatica di Roma il pubblico si stava sciogliendo per il caldo e ha aspettato un’ora e mezza (fischiando solo un po’). Ieri sera al Forum di Milano più o meno uguale
Si dice che Axl Rose, uno dei cantanti più imprevedibili che ci siano, unico proprietario di una band che dal 1987 al 1993 è stata la più grande in circolazione, abbia frequenti crisi di panico (panico?) e se ne rimanga rintanato nella stanza d’albergo finché non gli passano.
Si dice.


Di sicuro è il testimonial più sfocato di un’abitudine nitidissima: scardinare le regole della ritualità rock. Ma grazie a tragici vizi o sgangherate manie, suvvia. Non per una paturnia qualsiasi, una roba così cheap che neanche alla sagra della salamella.

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