«Una follia curare le donne con i farmaci degli uomini»

Era tutto scritto fin dalla notte dei tempi: «Maschio e femmina li creò» (Genesi, 1, 27). Cioè differenti. Ma la ricerca scientifica e l’industria farmaceutica hanno preferito credere che fossero uguali. E si sono comportate di conseguenza. Prendete i quattro studi mondiali che rappresentano tuttora i capisaldi per il trattamento delle malattie cardiovascolari. Blsa (Baltimore longitudinal study of aging) durato dal 1958 al 1975: nessuna donna presa in esame. Physicians’ health study of aspirin and cardiovascular disease del 1982: 22.071 arruolati, nessuna donna. Mrfit (Multiple risk factor intervention trial) del 1986: 355.222 uomini, nessuna donna. Woscops (West of Scotland coronary prevention study) condotto dal 1989 al 1991: 6.595 uomini, nessuna donna. Peccato che nel frattempo l’infarto, considerato fino a ieri un accidente tipicamente maschile, in Italia sia diventato la prima causa di morte per il sesso femminile.
È prevalsa la teoria della costola: se Dio trasse la donna dall’uomo, le cure che vanno bene per lui andranno senz’altro bene anche per lei. «Non è affatto così. E oggi si scopre che la medicina è un buco nero, un baratro. Come se fosse rimasta ferma agli anni Quaranta. Bisogna ricominciare tutto daccapo, partendo dall’anatomia e dalla fisiologia, per capire come s’instaurano le malattie nei due sessi e poi stabilire quali terapie vanno adottate. Ma per farlo servono tanti quattrini. E le multinazionali farmaceutiche si metteranno di traverso, perché hanno il terrore che i loro prodotti vengano giudicati inutili per metà della popolazione mondiale». La professoressa Giovannella Baggio, primario di medicina generale nell’Azienda ospedaliera di Padova, emette una sentenza senza appello. È stata lei la prima in Italia, nel 2009, ad accorgersi di «questa vergogna mondiale», a dedicarvi un congresso e a fondare il Centro studi nazionale su salute e medicina di genere, del quale è tuttora presidente. «Attenzione: la medicina di genere non è la salute della donna o la salute dell’uomo, bensì una nuova dimensione della medicina che studia l’influenza del sesso e del genere su fisiologia, fisiopatologia e patologia umana».
Musica per le orecchie delle femministe. «Purtroppo. Ma io le detesto cordialmente. Mai stata una di loro». La professoressa Baggio ha cominciato all’età di 7 anni a formarsi a tutt’altra scuola di vita, quella di sir Robert Baden-Powell e della sorella Agnes. È stata esploratrice dal 1954 fino al 1999 e per un quinquennio ha anche ricoperto la carica di capoguida d’Italia, il grado massimo nella diarchia maschio-femmina che governa lo scoutismo mondiale. Da questo punto di vista ha raccolto l’eredità della madre Agnese, scultrice scomparsa nel 1988, figlia del conte Emilio Figarolo di Gropello e dell’inglese Agnese Treherne, la quale fu una leader del movimento scout femminile e un’intrepida scalatrice, spesso in cordata con gli alpinisti Emilio Comici e Giovanni Demez: aprì una via dolomitica, che porta il suo nome, nel gruppo Puez-Odle.
La vocazione per la medicina l’ha invece presa - come del resto suo fratello Marco, psichiatra in Svizzera - dal padre, il professor Giovanni Baggio, vicentino, primario chirurgo prima nell’ospedale di San Giovanni Valdarno, dov’è nata, e poi in quello di Adria. «Dall’età di 5 anni non ho mai pensato di fare nient’altro nella vita. Giocavo con le bambole, però io ero il loro medico, non la loro mamma. Mio padre era chirurgo generale, stava in sala operatoria 12 ore al giorno e doveva fare di tutto. Dalle condizioni in cui tornava a casa, intuivo che giornata aveva avuto. Quand’era stanchissimo, voleva dire che era stato impegnato in una resezione gastrica; se aveva le mani imbiancate di gesso, che era reduce da interventi ortopedici».
Giovannella Baggio s’è laureata in medicina e chirurgia 40 anni fa all’Università di Padova, con il massimo dei voti e la lode. Poi s’è specializzata in endocrinologia e in medicina interna. Ha insegnato geriatria e gerontologia negli atenei di Pavia, Padova e Sassari. In Sardegna, dov’è rimasta per cinque anni, ha avuto fra i suoi pazienti il pastore Antonio Todde, abitante a Tiana, entrato nel Guinness dei primati come l’uomo più vecchio del mondo, morto nel 2002 pochi giorni prima di compiere 113 anni. Il quale solo all’età di 101 aveva cominciato a prendere le pastiglie contro il diabete. In quel periodo la professoressa creò un database contenente i nomi di un migliaio di ultracentenari. «Sull’isola ho assistito a un paradosso genetico, per cui la metà di coloro che avevano superato i 105 anni erano portatori di anemia mediterranea». Nel reparto che dirige attualmente l’età media si aggira sui 79 anni. Un paziente ne ha 105. «Non disponiamo di conoscenze sufficienti per dire che uomo e donna vanno curati in modo diverso. Però abbiamo delle constatazioni agghiaccianti, soprattutto in cardiologia».
Quali constatazioni?
«Negli ultimi 30 anni la mortalità per malattie cardiovascolari è calata del 40 per cento nell’uomo e appena del 3-4 per cento nella donna, a parità di prevenzione su entrambi i sessi per quanto riguarda ipertensione, ipercolesterolemia e sindrome plurimetabolica. L’infiammazione delle arterie causa aterosclerosi nella donna più che nell’uomo. Nei primi sei mesi dopo un infarto le probabilità di morire sono del 26 per cento nella donna e solo dell’11 per cento, cioè meno della metà, nell’uomo. L’aspirinetta nelle donne non serve a prevenire gli accidenti vascolari: al massimo può essere utile solo a ridurre le ricadute sulle pazienti che hanno già avuto un infarto o un ictus. Il diabete è tre volte più pericoloso nella donna che nell’uomo. Persino la sintomatologia dell’attacco cardiaco cambia nei due sessi: invece della tipica stretta al petto percepita dai maschi, le femmine spesso avvertono dolore al dorso, alla pancia e al collo, motivo per cui finiscono nei reparti sbagliati quando non vengono addirittura dimesse dal pronto soccorso con la diagnosi: “Non è nulla”».
Assurdo. Un infarto è un infarto.
«Sì, ma nell’uomo i danni sono concentrati nei grossi vasi dell’albero coronarico, mentre nella donna vengono coinvolti i piccoli vasi, che nelle coronarografie non si vedono. Vuole un altro esempio? La frequenza cardiaca è più veloce nel sesso femminile anche durante il sonno. Qual è il medico che ne tiene conto quando prescrive a una paziente ipertesa taluni farmaci, come i calcioantagonisti, che provocano tachicardia? Tutti i medicinali cardiovascolari hanno effetti collaterali 10 volte più pesanti sulle donne che sugli uomini e non sappiamo ancora perché».
Oltre al cuore, quali altri organi femminili ha sottovalutato la ricerca?
«Il cancro del polmone nelle donne è aumentato di 30 volte negli ultimi 30 anni».
Per forza, fumate più dei maschi.
«Anche. Ma nella donna la neoplasia si sviluppa in periferia, quindi provoca meno sintomi e non viene individuata per tempo. I tumori intestinali aggrediscono più frequentemente il colon discendente negli uomini e quello traverso nelle donne».
Perché la medicina di genere arriva soltanto nel terzo millennio?
«Perché per secoli ci si è occupati degli uomini, che portavano a casa il cibo e quindi dovevano vivere a lungo. Siamo state vittime della sindrome del bikini: si studiavano solo gli organi del nostro apparato riproduttivo, seni, utero e ovaie. Inoltre, quando agli inizi del 1900 la durata media della vita era di appena 50 anni, negli ospedali si vedevano molti più maschi, dal momento che nelle femmine le patologie senili s’instaurano con un decennio di ritardo. Sembrava che noi non ci ammalassimo mai. Oggi invece sappiamo che i cinque anni in più di sopravvivenza della donna rispetto all’uomo sono tutti contrassegnati dalla malattia. Infatti all’età di 50 anni l’aspettativa di vita sana è praticamente uguale nei due sessi: 20 anni e 230 giorni gli uomini, 20 anni e 314 giorni le donne. Una differenza di appena 84 giorni».
Resta la follia scientifica degli studi clinici. Perché le donne ne sono state sistematicamente escluse?
«Per praticità. Prenda gli esami del sangue: a una paziente la glicemia va dosata prima, durante o dopo il ciclo mestruale? Non volendo seccature, i ricercatori hanno lavorato soltanto sugli uomini. Perfino gli animali da laboratorio, in oncologia, sono tutti maschi».
Però la professione medica ormai è in mano al gentil sesso. Un bel paradosso, non le pare?
«L’80 per cento delle specializzande in medicina interna qui a Padova sono donne. Finiremo come la Russia di 40 anni fa, dove c’erano solo medici di sesso femminile. Non è una buona cosa. Abbiamo teste diverse e la collaborazione uomo-donna vince sulla competizione».
A quali malattie sono più soggette le donne?
«Infarto, osteoporosi, demenza senile, depressione. Ma non sappiamo se vanno curate diversamente. Abbiamo mappato il genoma umano, ci riempiamo la bocca di farmacogenetica, presto daremo le medicine in base a un piccolissimo puntino di differenza nel Dna, eppure ci siamo dimenticati dei cromosomi XX e XY che distinguono l’uomo dalla donna. Fino al 2007 di questi temi non trovavo traccia nelle grandi pubblicazioni scientifiche, come Lancet. Le uniche osservazioni sulle differenze uomo-donna apparivano nelle riviste per infermieri».
Dell’osteoporosi si parla solo al femminile. Ma i maschi non ne sono immuni.
«È l’unico esempio contrario. Qui è più studiata la donna, perché si ammala prima. Ma sopra i 65-70 anni l’osteoporosi colpisce molto anche l’uomo e, in caso di fratture, è assai più letale».
La gravidanza è un fattore di rischio o protettivo? Insomma, diventare madri allunga o accorcia la vita?
«Equivale a un doping. Nella donna che ha allattato, è un ottimo fattore protettivo contro il tumore al seno. Ma se durante la gravidanza s’instaurano ipertensione e ipercolesterolemia, questi vanno considerati indici predittivi negativi».
Non per insistere nel comparativismo sessista, ma la menopausa è studiatissima e curatissima nelle donne, mentre dell’andropausa manco si parla.
«La menopausa è stata eccessivamente medicalizzata. L’abbiamo trasformata in una malattia. Come la gravidanza».
Almeno lo stress è uguale in entrambi i sessi?
«Direi di sì. Ma la stanchezza è diventata lo status abituale della donna che lavora e contemporaneamente porta il peso della famiglia e della casa. Vedo sindromi da astenia sempre più poderose».
Quale incidenza ha lo stress nel predisporre gli individui ad ammalarsi?
«È una concausa in molte malattie delle coronarie. Una piccola placca, se associata agli spasmi di un’arteria provocati dallo stress, dà luogo a un evento acuto. Ma lo stress che offre soddisfazioni fa bene. Stiamo attenti a non demonizzarlo. Se un individuo è stressato ma felice, non corre pericoli. Un po’ di adrenalina ci fa alzare dal letto al mattino».
Se la medicina di genere è così decisiva, perché a uomini e donne vengono allegramente trapiantati organi provenienti da donatori di entrambi i sessi?
«Non ci siamo mai nemmeno posti il quesito. Guardavamo soltanto alle dimensioni degli organi: quelli maschili spesso sono troppo grossi per essere trapiantati in una donna. Di recente ci si è resi conto d’aver sottovalutato gli aspetti legati al sistema immunitario e all’istocompatibilità. Facciamo il caso di una paziente che sia diventata madre di un bambino. Durante la gravidanza avrà convissuto con un essere vivente riconosciuto dal suo organismo come non femminile e quindi avrà sviluppato gli anticorpi di difesa, che dopo il parto vanno in quiescenza. È fisiologia umana. Che cosa succede se le viene donato un organo maschile? Questi anticorpi si riattivano. Se poi di gravidanze maschili ne ha avute più d’una, peggio ancora: il trapianto diventa a rischio».
Lo chiedo a lei che ha studiato gli ultracentenari: ha senso aggiungere anni alla vita? Non sarebbe meglio aggiungere vita agli anni?
«Dipende dallo spirito del gioco, come spiego nel mio saggio Adulti e gioco. Le componenti del gioco sono due: l’entusiasmo per l’avventura e le regole che impongono autocontrollo. Per vivere bene bisogna saper giocare bene».
Qual è l’aspetto peggiore della vecchiaia?
«La perdita dello spirito di gioco, la paura dell’oltre. È l’età in cui si comincia a scorgere la fine. Alcuni sperano che sia una frontiera al di là del quale vi è qualcosa. Altri, compresi vescovi e sacerdoti, ne hanno una paura tremenda, la scotomizzano, non la vogliono vedere. La frontiera spaventa».
Per quale motivo un ultraottantenne con gravi invalidità dovrebbe essere felice di tirare avanti?
«Dipende dal suo credo. Io ho avuto una mamma che ha vissuto gli ultimi 11 anni della sua vita tormentata da un mieloma multiplo.

Diceva: “Una volta facevo roccia, adesso mi dedico all’alpinismo spirituale”. Trovava un senso anche nelle sue diminuzioni. Ha scritto quattro libri su questo. Da malata».
(586. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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