Fondi comuni: l’invasione degli stranieri

Marcello Zacché

da Milano

I fondi comuni d’investimento italiani continuano a deludere i risparmiatori. Il mercato se n’è accorto e così hanno fatto anche banche e finanziarie straniere: l’invasione nei portafogli degli italiani di prodotti esteri è in piena espansione. Lo dice e lo documenta, puntuale come lo sono le stelle cadenti ad ogni inizio estate, l’ufficio studi R&S di Mediobanca, nella sua consueta «Indagine su fondi e Sicav italiani», pubblicata ieri per il 2005 e giunta alla quindicesima edizione.
Negli ultimi cinque anni i fondi tricolori hanno distrutto valore per 67 miliardi di euro. E se l’anno scorso i rendimenti sono tornati a essere soddisfacenti, passando dal 3 al 6,5% medio annuo, anche i costi di gestione hanno implacabilmente tenuto questo passo, crescendo del 5,2%. Risultato immediato: la disaffezione. Nel 2005 i riscatti hanno superato le nuove sottoscrizioni per 15 miliardi di euro. Mentre il complesso di Fondi e Sicav, negli ultimi due anni, ha subito un salasso di 57 miliardi di euro. Basta pensare che il patrimonio totale del sistema fondi a fine 2005 risultava di 376 miliardi, ridotto del 15% rispetto al massimo storico del ’99. E il salasso continua: nei primi sei mesi di quest’anno i riscatti hanno toccato il record dei 30 miliardi.
Conseguenza: l’invasione degli stranieri, che in questo primo semestre hanno invece raccolto 12 miliardi di euro, raggiungendo una quota del patrimonio complessivo di oltre il 6 per cento. Attenzione: non si tratta di fabbriche-prodotto italiane cosiddette «esterovestite», cioè di fondi di matrice nazionale, ma di diritto lussemburghese, piuttosto che irlandese, emessi per sfruttare la legislazione fiscale di vantaggio. Niente affatto: questi sono fondi esteri in tutto e per tutto. I cui tre principali gestori, Jp Morgan, Crédit Agricole e Schroders, da soli coprono il 40% del totale.
Un fenomeno allarmante a cui, non a caso, hanno recentemente fatto riferimento sia il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nelle sue «Considerazioni Finali», sia il presidente della Consob Lamberto Cardia nell’incontro annuale con il mercato: entrambi sottolineavano la pericolosità delle asimettrie fiscali anche per i fondi esterovestiti.
Ma il problema strutturale sollevato riguarda un patrimonio, quello del risparmio italiano, che rischia di trasformarsi in terreno di conquista e concorrenza, tra meri distributori. Mentre la produzione e l’ideazione degli strumenti finanziari prospera fuori confine.
D’altra parte i fondi esteri costano di meno (mediamente quelli italiani sono stimati 3 volte più cari di quelli Usa) anche perché presentano tassi di «turn-over» molto più elevati: in altri termini un gestore straniero vende e compra i suoi titoli molte meno volte di uno italiano. Mediobanca calcola che la rotazione completa di un portafoglio italiano avvenga ogni 8 mesi, contro un orizzonte temporale di due anni per un gestore americano.
Ma Mediobanca dice anche altro: torna sulle note dolenti dei rendimenti dei fondi (sui quali da sempre l’istituto di Piazzetta Cuccia è severo castigatore) per rimarcare la scarsa redditività nel lungo periodo: chi ha investito 100 euro nei fondi alla loro nascita (nel 1984) e 100 euro nei Bot, oggi se ritrova in tasca 335 nel primo caso, e 383 nel secondo. I fondi hanno reso cioè 47,7 euro di meno dei Bot, e a fronte di un rischio molto maggiore.


E la situazione non cambia neanche se si confrontano tra loro i fondi azionari e gli indici Mib (Piazza Affari) e Msci (quello mondiale delle Borse di Morgan Stanley): negli ultimi 19 anni i fondi azionari hanno reso il 100,4%, mentre avendo investito nell’indice Mib si sarebbe ottenuta una performance del 197%, e del 478,5% nell’indice Msci mondiale.

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