L’altro ieri, durante un girotondo di protesta davanti a Montecitorio contro i tagli allo spettacolo e a favore di un reintegro dei finanziamenti pubblici a teatro e cinema, alcuni artisti - tra cui Luca Zingaretti, Carlo Verdone, Luca Barbareschi, Nanni Moretti, Mario Monicelli e molti altri «big» italiani - hanno minacciato di scioperare e, a settembre, persino di boicottare la Mostra di Venezia.
«Siamo realisti - ci dice Franco Zeffirelli - anzi, siamo anche un po’ cinici: se scioperano non gliene frega niente a nessuno. Anzi, ne approfitteranno coloro che vogliono abbassare i cachet degli artisti, che verranno scritturati tra qualche mese con una paga più bassa».
Gli artisti coinvolti hanno detto che lo sciopero servirà a “far sentire la loro voce”...
«Bene. Che la facciano sentire al cinema e nei teatri. È lì che c’è il confronto vero, reale, di un artista con il pubblico. Ed è lì che l’arte paga sé stessa e le proprie spese. Il resto sono tutte chiacchiere, specie di sinistra».
Ma come far sentire la propria voce senza finanziamenti statali?
«Facendo delle buone cose. Io non sono un profeta, ma così, con questo cinema e questo teatro, si va verso l’irreparabile. Negli ultimi decenni la qualità delle produzioni è caduta in picchiata: nonostante i finanziamenti».
Che qualche volta, però, permettono a un’opera di pregio di camminare con le proprie gambe.
«A un’opera di pregio le gambe gliele dà soltanto il botteghino. Più che tagli o reintegri, servirebbe percorrere altre strade. Per esempio, tassare gli incassi italiani di produzioni straniere e detassare completamente i biglietti delle nostrane. Non si capisce perché, poi, chi va a vedere I maestri cantori di Norimberga debba pagare il 42 per cento di tasse sul prezzo di un biglietto allo stesso modo di chi va a vedere una porcheria qualsiasi. Se passasse questa detassazione mirata che continuo a proporre, istituzioni come l’Arena di Verona potrebbero mantenersi da sole».
Pare si vada in questa direzione: è recente la concessione da parte del governo di un credito di imposta e di una detassazione degli utili ai produttori artistici.
«Questo compenserà certo i tagli. E porterà anche, magari, a un altro passo ancora più importante».
Quale?
«Lo smantellamento di quel sistema di finanziamenti pubblici all’arte che fin dagli anni Cinquanta la sinistra ha messo in piedi, attraverso il Ministero del Turismo e dello Spettacolo, per foraggiare tutte quelle clientele di cui aveva bisogno, bisogno elettorale, s’intende. Per questa via si è condotta l’arte alla débâcle attuale, poiché tutto questo non è senza conseguenze per la creatività».
Un esempio?
«Ha visto la recente Tosca di Franco Ripa di Meana? Se non l’ha vista si prepari lo stomaco e poi vada a vederla. È inguardabile, un disonore per la tradizione operistica romana. È stata finanziata da poteri così forti da far abbassare la testa persino al sindaco Alemanno. Siamo davanti a uno Stato che non si informa più prima di concedere finanziamenti. Nemmeno sul tipo di regia che verrà fatta».
Lo Stato deve farsi anche critico artistico, prima di concedere soldi pubblici?
«Deve fare una cosa più semplice: smettere di essere uno Stato amministrativo e clientelare, e iniziare ad essere uno Stato ispiratore: con competenze, perché no, anche artistiche. So che è difficile, ma è l’unica strada, insieme a quella degli sponsor privati».
Questi ultimi, però, sono restii a finanziare enti in balia di sprechi di ogni tipo.
«Gli sprechi sono la dannazione dei teatri e degli enti lirici, insieme ai lauti stipendi dei raccomandati di turno che vi vengono collocati politicamente. Vanno combattuti. Ma quando le opere hanno successo, me lo lasci dire, gli sponsor arrivano, pure per le produzioni successive. Lo si vede in America, in Inghilterra.
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