Se ci avesse messo mano lui, Depero, l’avrebbe fatto proprio così: un museo trasognato, un museo dove «avanguardia e memoria» convivono, anzi dialogano. Una struttura dentro una struttura, dove l’intercapedine che le divide, e le collega, non è solo una misura spaziale, ma propriamente la «misura intellettuale» dell’opera di Depero: museificata da una parte, eppure tuttora viva dall’altra.
L’architetto Renato Rizzi, docente della facoltà di Architettura di Venezia, già sodale di Peter Eisenmann (del gruppo Five Architects di New York), ha ripreso le suggestioni del periodo più vitalistico di Depero, quello degli anni romani e soprattutto capresi (1916-1918) e ha ricreato quei percorsi, quelle finestre a volta tipicamente mediterranee, che bucherellavano le facciate della Torre Fournillo a Positano, rifugio del poeta svizzero Gilbert Clavel, amico di Depero.
Quegli scorci segnano alcune delle opere più suggestive dell’artista roveretano, come il Clavel nella funicolare, oppure ne illustrano il decadente libro (Un istituto per suicidi), per il quale Depero realizzò tutte le immagini a corredo.
E dunque domani, a poco meno di cinquant’anni (agosto 1959) dall’apertura ufficiale e dopo venti di progetti e lavori di restauro, il primo museo futurista d’Italia ritorna alla città, e agli appassionati dell’artista. Si va così a colmare un vuoto «esistenziale» che molti cultori di futurismo sentivano da anni: quasi un paradosso. Infatti da quando era stato avviato il Mart, proprio sullo slancio dell’unione del Museo Depero e del Museo Provinciale d’Arte di Trento, appunto «paradossalmente» il Museo Depero aveva chiuso e l’artista era di fatto scomparso dalle sale espositive, eccettuato per le mostre temporanee. Ma si trattava di una scelta obbligata, dovuta soprattutto alle nuove normative degli edifici pubblici.
Quando Depero iniziò a pensare al suo museo, già durante gli anni passati a Serrada nel corso della Seconda guerra mondiale, e poi con più insistenza nell’immediatezza del rientro dal suo secondo soggiorno americano (1947-1949), aveva concepito una struttura architettonica che richiamava appunto quella del Palazzo della Secessione a Vienna, con una grande sfera sul tetto, emblematicamente richiamando le lontane radici mitteleuropee della sua formazione alla Scuola Reale Elisabettina di Rovereto. Poi, in realtà, dopo varie trattative, l’amministrazione comunale nel 1956 gli mise a disposizione un palazzo vetusto del XV secolo. Autentica doppia ironia della sorte. Primo perché un futurista che aveva gridato nelle piazze «bruciamo i musei e le accademie», si ritrovava a museificare se stesso. E poi perché dovette fare buon viso a cattivo gioco: i suoi quadri futuristi avrebbero dovuto dialogare con gli affreschi rinascimentali, cioè con quell’arte passatista che aveva sempre detestato.
Ma Depero, pragmaticamente, ritenne che comunque era meglio questo che il nulla. E poi ci avrebbe pensato lui a ridecorare futuristicamente le vecchie volte a tutto sesto, a sostituire con mosaici futuristi i vecchi cotti dei pavimenti: a tramutare, insomma, un ambiente vecchio e polveroso in un’autentica polveriera d’arte e pensiero. I lavori durarono tre anni, durante i quali Depero fu colto anche da un ictus che lo costrinse a una lunga e parziale riabilitazione, ma finalmente l’1 agosto del 1959, il Museo fu inaugurato. Depero gli sopravvisse poco più di un anno. La sua opera per sempre.
Da allora il percorso è stato lungo, e irto d’insidie. Per il Futurismo «non era aria», grazie a una lettura critica pesantemente ideologica che al massimo salvava la prima cerchia, penalizzando tutti gli altri (compreso Depero).
La stessa città non gli credette poi molto. Per anni un cartello sulla porta del museo avvertiva chi voleva visitarlo di «chiedere le chiavi ai vigili urbani». Poi, piano piano, si passò a un’apertura limitata ai mesi estivi, e infine all’apertura permanente. Ma la dimensione era quella locale, e l’attività minima.
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