Dunque il dibattito sullidentità nazionale, lanciato dal Giornale, è arrivato a termine con risultati che paiono sorprendenti e insperati rispetto alle aspettative più ottimistiche. Per chi, guardandoci proporre questo referendum, aveva sperato che il suo esito sarebbe stato quello di mettere a nudo una Nazione divisa, scoraggiata, impaurita, pronta a ripetere leterno ritornello sulla «vergogna di essere italiani», preda dei particolarismi regionali, chiusa nellegoistica ricerca del suo «particolare», la delusione deve essere stata forte. Certo nei tantissimi messaggi dei nostri lettori non mancavano neanche questi stati danimo ma alla fine mi sembra abbia prevalso su tutto un orgoglioso sentimento di appartenenza, espresso però senza arroganza.
Non pochi sicuramente ci hanno ribattuto rivendicando la loro identità padana, veneta, lombarda, toscana, altri, dal Sud, hanno ricordato loro eterna condizione di «cafoni» colonizzati dall«invasione piemontese» del 1861, ma queste risposte mi paiono derivare in fondo da un diffuso e giustificato sentimento di «antipolitica» per i tanti periodi di malgoverno che si sono succeduti nella Penisola più che da un vero e proprio distacco dalla nostra Vaterland. Proprio a questi «antitaliani» costretti ad esserlo, forse contro la loro stessa volontà, vorrei però replicare con i fatti della storia, scegliendo come banco di prova il terreno economico. Prima dellunificazione, lItalia era un paese sottosviluppato rispetto non soltanto alle grandi compagini statali di Francia e Inghilterra, ma anche a molte altre regioni europee. Lo era più nel Mezzogiorno, senza dubbio, ma lo era anche al Nord, dove le strutture produttive e quelle creditizie avevano conservato una fisionomia funzionale soprattutto alla configurazione agraria della Penisola. Nei decenni successivi al 1861, questa situazione muta, il prodotto nazionale lambisce la media europea, la creazione di un grande mercato unificato stimola produzione consumo e una nuova, globale strategia di sviluppo, già sperimentata con successo in Piemonte, si dimostra capace di garantirci una posizione dinamica allinterno della nuova divisione del lavoro internazionale creata dalla rivoluzione industriale.
Dubito che questi stessi risultati avrebbero potuto essere raggiunti anche in unItalia federale. La scelta del federalismo, del tutto auspicabile oggi, non lo era allora sul piano economico. Né poteva esserlo su quello politico, quando la giovane indipendenza del nostro Paese era minacciata dalla controffensiva di Austria e Russia, quando la Francia di Napoleone III, che pure ci regalò la vittoria di Solferino, guardava con diffidenza la nascita di una nazione di quaranta milioni di cittadini sui suoi confini, quando infine lInghilterra si accomodò alla creazione di unItalia unita, arrivò anche a favorirla, ma solo perché lestensione costiera del nuovo Regno lo poneva sotto il perenne ricatto delle sua flotta. È oggi tanto modificata questa situazione? Forse no, dato che il nostro status di media potenza viene messo in discussione quotidianamente dai nostri partners europei. Sicuramente no, se lEuropa in questultimo decennio è diventata una società multietnica, senza alcuna programmazione, senza alcun progetto, senza una guida politica, se in quasi tutti gli Stati del Vecchio continente gli immigrati sono più del 10%, se la maggior parte di loro hanno culture e tradizioni difficilmente assimilabili alle nostre.
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