Politica

Il fuoco dello sport che è rinato a fine ’800

L’agonismo, la sfida, la competizione. Lo spirito sportivo, l’accettazione della sconfitta, la cavalleria. Le due anime delle Olimpiadi si fondono in due motti: da una parte «Citius, altius, fortius», l’esortazione del predicatore Henri Didon a spingersi «più veloce, più alto, più forte»; dall’altra Pierre de Coubertin con il suo «l’importante è partecipare».
Storia, eticità e umanità. I Giochi Olimpici moderni, istituiti a fine Ottocento su iniziativa del barone francese Pierre de Coubertin, hanno segnato tutto il XX secolo e veleggiano verso l’edizione di Pechino.
Da Atene ad Atene, dalla prima edizione del 1896 a quella del 2004. Un secolo abbondante di emozioni e gioie. Ma anche ferite, come quelle tre edizioni (1916, 1940 e 1944) non disputate a causa dei conflitti mondiali. Ferite, poiché se nell’antichità le città greche cessavano ogni ostilità in occasione dei Giochi, nella contemporaneità non è stato così. Ferite che affiancano le imprese sportive in una staffetta. Come i 17 israeliani uccisi a Monaco di Baviera dal gruppo terroristico palestinese Settembre Nero nel 1972, nell’anno in cui lo statunitense Mark Spitz vinse 7 medaglie d’oro nel nuoto. Come il pugno guantato alzato dai neri americani Smith e Carlos a Città del Messico ’68, quando la premiazione dei 200 metri si tramutò in un grido contro il razzismo. Come i boicottaggi incrociati di Usa e Unione Sovietica ai Giochi di Mosca ’80 e Los Angeles ’84, in piena Guerra fredda.
La politica, le tensioni internazionali. Fardelli che le Olimpiadi si sono trascinate appresso. Come il doping, scoperto con clamore nel 1988 a Seul, quando il canadese Ben Johnson fu radiato. La truffa che inquina l’immagine più pura e sacra dello sport. Gli ormoni somministrati alle atlete dell’ex Ddr, che hanno portato Heidi Krieger a cambiare sesso. E ancora la polemica sulle Olimpiadi del centenario, quelle che nel 1996 avrebbero dovuto tornare ad Atene e che invece finirono ad Atlanta, città della Coca-Cola.
Ma per ogni cicatrice, i Giochi rifioriscono. Si moltiplicano, con le Olimpiadi invernali e le Paralimpiadi per i disabili. Si arricchiscono di protagonisti, tanto da racchiudere 203 Paesi: dieci in più di quelli membri delle Nazioni Unite. Succede che la Cina faccia il diavolo a quattro per non far gareggiare Taiwan e che Scozia, Galles e Inghilterra - divise nel calcio e nel rugby - si uniscano sotto la stessa bandiera; succede che la ginnasta romena Nadia Comaneci ottenga per la prima volta il punteggio di 10 per un esercizio. La perfezione, come quella di Carl Lewis, il «Figlio del vento». O quella di Sergei Bubka, il saltatore sovietico. O quella di Dorando Pietri, il maratoneta italiano primo ai Giochi di Londra 1908 e squalificato perché sorretto dai giudici all’arrivo, stremato. La sua immagine barcollante e sublime è lo specchio di questa kermesse: icona dello sport, riflesso della vita vera.

Anche quando la vita vera fa male e brucia.

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