«Furono gli scienziati a unire il Paese Con l’aiuto di Giuseppe Garibaldi»

Pisa, novembre 1839. Dopo parecchi giorni asciutti comincia a piovere quando la campana della Torre dell’Orologio suona le 9 e i primi convegnisti del Congresso Scientifico che si apre nella città di Galilei varcano il portone dell’ex Scuola Normale Superiore, l’antico austero edificio di Piazza dei Cavalieri che dal 1810 è stato perno delle iniziative culturali di maggior prestigio del Granducato napoleonico di Elisa Bonaparte prima e poi del rinato Granducato di Toscana. Alla spicciolata entrano in fretta napoletani e veneti, marchigiani e lombardi, piemontesi e emiliani; fianco a fianco, salvaguardia da ogni campanilismo e regionalismo.
Da Cannizzaro a Meucci, è presente una intera generazione di studiosi. Quattrocentoventuno scienziati di diversa origine e provenienza che ragionano insieme del futuro comune, sia intellettuale sia sociale, primo impulso allo sviluppo di una moderna concezione della cultura.
Molti patrioti dell’epoca, a cominciare da Cavour, avevano studiato nelle Accademie militari, e in quelle scuole erano di casa geodetica e topografia, balistica e trigonometria, geometria e cartografia, mica la letteratura. Perfino Garibaldi, che conosciamo quasi solo come grande condottiero, si era fatto una cultura scientifica alla Scuola per capitani di marina di Nizza e Genova. Per decenni i maligni hanno lasciato credere che fosse pressoché analfabeta. Non è vero, come dimostrano i precisi calcoli di trigonometria del quadernetto di appunti per la navigazione che ci ha lasciato. Inoltre parlava correntemente cinque lingue: italiano, francese, portoghese, spagnolo e inglese. Ma se ignorante fosse stato, bisognerebbe rimediare subito con un bel diploma di ingegnere, a riconoscimento della validità dei suoi studi per deviare e rendere il Tevere navigabile, per bonificare le paludi pontine e per la colonizzazione della Sardegna con un ampio programma di lavori idraulici.
In ogni caso, se pochi se ne erano accorti, quasi nessuno prevedeva che la scienza fosse destinata a dominare, a sostenere e portare avanti uno Stato moderno e una cultura d’avanguardia con cambiamenti politici tali da offrire all’Italia un rinnovato primato in Europa, un secondo Rinascimento. In Piemonte, grazie a Cavour, si comincia infatti a praticare un’agricoltura moderna; in Lombardia l’impiego del vapore si diffonde nelle filande, nelle seterie, nelle navi per la navigazione lacustre, entra addirittura nella moda e ispira le maniche a sbuffo per gli abiti delle signore.
Un panorama politico e culturale, quello italiano del primo ’800, piuttosto smorto, spuntato come un angolo ottuso? Oppure un magma ribollente di stimoli passioni ideali, poco evidenti ma ben radicati?
«È vera la seconda ipotesi - risponde senza prendere fiato, come se nella domanda ci fosse una trappola incorporata, il professor Marco Pizzo, direttore del Museo Centrale del Risorgimento di Piazza Venezia a Roma -. Cominciamo col dire che il 1839, data del Congresso di Pisa, è un anno speciale. Nella sola Lombardia operano circa 600 medici, più che in qualsiasi altra zona d’Europa, provenienti dall’Università di Pavia e dalle Scuole dell’Ospedale Maggiore di Milano. In tutta la Penisola i professionisti stanno diventando la spina dorsale della società. Perfino tra i Mille i laureati erano più di cento, avvocati, ingegneri, medici, insegnanti».
L’esposizione è lucida, i riferimenti sicuri. Studioso di storia e di archivistica, Pizzo dirige da 10 anni questo Museo del Vittoriano (un milione e mezzo di documenti originali) dove, nel 2011, per i 150 anni dell’Unità d’Italia, è in programma l’originale, inedita mostra fotografica «Il Rinascimento del Risorgimento».
Un tema e un titolo ambiziosi, ma in realtà, cosa significano?
«Il Risorgimento ha fatto capire, specie ai giovani, che esisteva uno Stato italiano con una grande tradizione, anche scientifica, collegata al secolo di Galilei e al Rinascimento. Al Congresso scientifico di Pisa del 1839 si apre una stagione di attesa e di prova. In particolare fra gli universitari comincia a formarsi la mentalità che porterà ai battaglioni di Curtatone e Montanara (1848) e a diffondere la consapevolezza dell’Unità nazionale. Fermi stesso, cent’anni dopo, sottolinea la valenza etico-politica della ricerca scientifica e come lui Majorana che percepisce l’opera degli scienziati come una necessità storica, una specie di storicismo che vede la giustificazione di un progetto unitario anche nella scienza, come forma di vita, di libero pensiero».
Il professore non vuole sbalordire, solo farti capire. Riprende il discorso: «Può risultare singolare, oggi, mai in realtà molti protagonisti del nostro Risorgimento avevano fatto i primi studi nelle Accademie militari dove si studiavano appunto le scienze esatte. Anche un patriota come Carlo Farini, presidente del Consiglio del Regno d’Italia nel 1862, aveva studiato in Accademia e ci ha lasciato una serie di scritti matematici interessanti e importanti».
In pratica, come sono riusciti questi uomini, da Cannizzaro a Avogadro, da Matteucci a Meucci, da Pilla a Gamba a Quintino Sella, con la sola forza dei numeri e delle formule, di analisi, diagnosi e prognosi, a contribuire a dar vita a un movimento che avrebbe trasformato «una espressione geografica» in una grande patria comune?
«I condizionamenti alla libertà d’espressione via via diminuivano. Basta ricordare che, dopo quello di Pisa, nel 1840 a Torino, nel 1843 a Lucca, nel 1844 a Milano, nel 1845 a Napoli, in ogni grande città della Penisola si organizzano convegni scientifici per verificare i progressi della ricerca nel Paese. È molto significativo che, proprio a Pisa, Luciano Bonaparte, ornitologo e fratello dell’imperatore Napoleone, abbia sostenuto che la scienza doveva essere considerata il tessuto connettivo dell’unità nazionale»
E Garibaldi? Pensava nello stesso modo?
«È molto probabile. Basta scorrere i titoli dei libri della sua biblioteca di Caprera, circa quattromila, per averne conferma. Altro che rozzo soldataccio. Era un uomo colto che oltre a interessarsi di geometria e di tecnica amava leggere poeti come Foscolo, Dante, Ariosto, Tasso, filosofi e storici come Giordano Bruno e Paolo Sarpi, studiare manuali di strategia come quelli del generale austriaco Franz Kuhn, suo avversario, sconfitto nella battaglia di Bezzecca, consultare pubblicazioni di idraulica, meccanica, armi da fuoco. Aveva l’hobby dell’astronomia, tanto che a fianco della casa si era fatto costruire un capanno da utilizzare come osservatorio.

In America Latina, nel 1841, insegnò matematica nelle scuole e durante i due anni trascorsi a Istanbul (1828-1830) fu precettore dei ragazzi di una ricca famiglia della città. “Qui approfittai per studiare anche un po’ di greco, poi dimenticato come il latino imparato da ragazzo”, si legge nel suo Diario».

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