Politica

Un futuro da modella Così la giovane Hina correva verso la morte

I sogni e i progetti della pachistana uccisa dal padre. Il ruolo della madre che tentava inutilmente di evitare lo scontro tra mondi inconciliabili

Gabriele Villa

nostro inviato a Sarezzo (Bs)

C'era soltanto lei dalla sua parte. Sempre. Mamma Bushra, o meglio «Bushi», come Hina la chiamava. Cinquantatré anni, una trentina dei quali passati al fianco di quell'uomo cocciuto e integralista che era ed è Mohammad. Taciturno, scorbutico coi vicini al punto da litigarci spesso. E con un chiodo fisso in testa: l'educazione islamica che Hina avrebbe dovuto avere. E poi quel matrimonio combinato quando Hina aveva soltanto dodici anni, e suo padre l'aveva promessa in sposa ad un cugino. Difficile convivere con un uomo così, farci dei figli, allevarli. Difficile governare una famiglia di tredici persone, che nella casetta a tre piani di via Dante, era diventata sempre più ingovernabile. Colpa delle alzate di testa di Hina. Che con la sua voglia di libertà e di emancipazione aveva incrinato definitivamente il rapporto non solo col padre, ma anche coi fratelli, i cognati, gli zii. Con tutto il clan dei Saleem e dei Tarik. Eppure - ricorda Anna, due usci più in là della casa dell’orrore - la signora Bushra sembrava esserci riuscita. Con la diplomazia e le sfumature di ogni buona madre sembrava cavarsela nell’impresa di tenere in equilibrio una situazione molto precaria e soprattutto di tenere al riparo, per quanto possibile Hina dalle ire del padre. «La madre - ricorda la vicina di casa - quando vedeva arrivare Hina, usciva di casa. Aspettava che scendesse dall'auto del fidanzato, parcheggiata a distanza o stava sulla provinciale quando Hina saliva da Brescia con la corriera. Le andava incontro, controllava come era vestita, le faceva indossare il velo, perché si presentasse al padre nel migliore dei modi».
C'era un dolcissimo filo d'amore che teneva unite Hina e sua madre. Anche se appartenevano a due generazioni diverse. Anche se mamma Bushra aveva continuato per tutta la vita a comportarsi da buona islamica. Negli atteggiamenti, nel vestire. Anche il suo con Mohammad era stato un matrimonio combinato quand'era bambina, ma lei, unica in famiglia, aveva compreso, forse non condiviso, ma compreso, quella voglia di libertà di Hina, quella sua scelta «occidentale» nei sogni e nella vita. Hina che si fa riprendere da un amico con una telecamera e gira un film amatoriale di quaranta minuti su una ragazza tradita che scaccia dal letto il suo amante fedifrago. Hina che lavora in pizzeria, indossa, come tutti oramai sappiamo, la minigonna, mostra l'ombelico, il tatuaggio al braccio destro e il piercing. Hina che beve birra, fuma e ascolta a palla la musica nel bilocale zeppo di gatti del suo Beppe a Brescia, dove si fermava a dormire sempre più spesso. Da una parte Hina che confida a Serena, la sua amica, il sogno di fare la modella. Che ha tanta voglia di imparare, di leggere, di crescere. Hina che offre da bere quando vince al videopoker e fa le boccacce davanti al videotelefonino dell'amico Marco, parla un italiano perfetto ed era diventata ghiotta di polenta, spiedini e piccatine al limone.
Dall'altra Bushra, che ha scelto, tanti anni prima, una sottomissione alle regole di famiglia e di religione che non le concede molte vie d'uscita, ma che si sente in dovere di fare quel poco che può fare per difendere sua figlia. Fino all'ultimo. Fino a quel giorno fatidico, quando quel filo è stato spezzato da qualcuno che Hina e Bushra conoscevano bene. E temevano. Bushra viene costretta ad andare in Pakistan coi più giovani della famiglia, ma prima di partire acquista un biglietto anche per la figlia, nel disperato tentativo di convincerla a seguirla nel Paese d'origine. Inutile. L’aspettano nelle prossime ore giudici e avvocati mamma Bushra. Aspettano la sua verità. Chissà se a sgozzarle Hina nella sua camera col grosso coltello da cucina è stato solo il padre. Anche perché sono sei i coltelli insanguinati trovati nella casa. Accusati di omicidio volontario premeditato, suo padre, Mohammad Saleem e suo zio, Mohammed Tarik, rimarranno in carcere. Il Gip di Brescia, Francesca Morelli, ha infatti convalidato il fermo dei due (si sono avvalsi della facoltà di non rispondere) mentre è inseguito da un mandato di cattura internazionale il loro complice, il giovane cognato di Hina. Ieri il procuratore Giancarlo Tarquini e i carabinieri dei Ris, chiamati a collaborare alle indagini, sono entrati nella casa del delitto. Un sopralluogo di mezz'ora in cui sono stati sequestrati alcuni oggetti per rilevare impronte o tracce biologiche. La perizia medica stabilirà se Hina abbia tentato di difendersi.

I graffi che la ragazza ha lasciato sul corpo dei suoi aggressori e i residui di pelle sotto le unghie definiranno i ruoli che i tre familiari hanno avuto nella vicenda.

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