Cultura e Spettacoli

Gabriele Salvatores «Il set è stato la mia famiglia ma adesso vorrei un figlio»

Il regista parte dal film che dedicherà al mare e viaggia nella sua vita per arrivare all’ultimo desiderio: fare un western

«In fondo la mia è una generazione di clandestini. Chi ha superato i cinquant’anni e guarda al se stesso giovane di venti, trent’anni prima, vedrà il ritratto di uno che fuggiva le responsabilità, a disagio nel proprio Paese, per molti versi un senza patria. Volevamo andare via e “non contate su di noi” era un po’ il nostro slogan... Poi, col tempo, ti rendi conto che a casa devi tornare, che ti devi assumere il peso di quello che succede. Non è un ritorno all’ordine è, almeno per come la vedo io, qualcosa di più sottile, il viaggio come metafora della vita, l’Odissea di ciascuno di noi. È anche per questo che ho scelto il mare per protagonista del mio prossimo film, perché non c’è odissea senza avventura, ma viviamo in una società dalla quale l’avventura è stata bandita, non esiste più, se non, appunto, sul mare, oltre le 12 miglia delle acque territoriali, in quello spazio internazionale dove tutto è possibile e dove si è di soli di fronte alla natura, agli elementi, alle tue decisioni. Io sono napoletano, ho imparato a stare in barca fin da ragazzino, conosco la sensazione di libertà e di grandezza che ti dà l’andare per mare. Così, se vuole, con questo film in fondo realizzo contemporanemente un paio di sogni, infantili e no, che avevo nel cassetto. Do sfogo a una passione marina e marittima e grazie a essa posso dar sfogo a una sete d’avventura, luoghi estremi, situazioni estreme, ancora più affascinanti per chi fa il mio lavoro, perché ti obbligano a pensare come e dove posizionare una macchina da presa, affrontare un problema di luci, di audio... In ultimo, ma non per ultimo, racconto un ritorno a casa che è un bilancio esistenziale e sentimentale. Perché, naturalmente, c’è anche una storia d’amore, l’amore fa parte dell’avventura... ».
Il mingherlino, occhialuto e sorridente Conrad italiano che mi sta di fronte si chiama Gabriele Salvatores, è un regista famoso, ha vinto un Oscar, gira molto spesso con gli stessi attori, ma non fa mai lo stesso film. «Io vengo da una famiglia napoletana numerosa, genitori, figli, parenti, l’esatto contrario di quella che è poi stata la mia vita privata... Così, ho realizzato delle famiglie professionali: l’esperienza teatrale dell’Elfo nasce in questo modo, agli inizi addirittura una comune, poi una cooperativa. Nel cinema è stato lo stesso, fare film è un lavoro collettivo, così come credo che la vita sia un’esperienza collettiva, e io quando sono sul set, con amici e collaboratori che conosco da sempre, sto bene. Prima le dicevo dei viaggi, dell’avventura, ma la cosa curiosa è che da giovane, e per anni, ho avuto paura di viaggiare, l’ho fatto sempre in gruppo e rimanendo vicino, il cinema è stato per me una specie di psicanalisi: mi portavo dietro una troupe di settanta persone e così mi sembrava di non essermi mai mosso... È stato solo dopo che ho preso coraggio e ho cominciato a farlo da solo... Tornando alla sua osservazione, mai lo stesso film, la mia capacità teorica di spiegare quello che faccio è pari allo zero, e quindi una risposta precisa non ce l’ho. Guardando all’indietro, posso dire che forse i primi erano legati a un rigurgito di giovinezza, la volontà di rimanere for ever young, come dice quella bella canzone di Bob Dylan. Marrakech express, Tournée, Mediterraneo, Puerto Escondido, in fondo vengono da lì. È anche per questo che dopo ho fatto Sud, ovvero l’impossibilità di evadere, di fuggire, di prendere tempo, di tirarsi fuori... Nirvana, invece, nasce da una vecchia passione per la fantascienza, i romanzi di Urania, un genere letterario di tutto rispetto, per nulla di serie B... Quando l’ho girato la cosiddetta “realtà virtuale” era ancora agli albori e si era appena ammazzato Kurt Kobain, il leader dei Nirvana. Aveva lasciato bene in vista un biglietto, con due frasi. La prima era di Neil Young, “meglio esplodere che consumarsi”, allora mi colpì molto, mi sembrava giusta, oggi sono più cauto in materia... Ma più interessante era l’altra, “non riesco più a stare nel gioco” c’era scritto... Quale gioco? cominciai a chiedermi... Poi un giorno che con Diego Abatantuono si stava giocando alla playstation, lui mi disse: “Ma secondo te, terminata la partita, gli omini del gioco che fine fanno? Vanno in pensione, si sposano, fanno figli, scompaiono, semplicemente?”. Ecco, Nirvana viene fuori da questa osservazione... Denti rappresenta un momento particolare della mia vita, quando andava tutto male, vedevo tutto nero, Io non ho paura è occasionale, la lettura per caso del romanzo omonimo, ma ha coinciso con il rendermi conto che avevo cinquant’anni, non avevo fatto figli e quella era una storia di bambini... Dietro tutto questo, poi, c’è sicuramente che ho cominciato facendo musica, poi teatro: cinematograficamente la mia è una generazione che non ha avuto maestri, sotto questo punto di vista quella precedente, i grandi del neoreralismo, della commedia all’italiana, sono stati avari, sterili. L’unico maestro vero che ho avuto è stato Nino Baragli, il montatore dei film di Pasolini, di Leone, dell’ultimo Fellini. “Se vuoi vedere se una scena è buona, togli il volume” mi diceva. “Perché l’immagine è il cuore del film, e il cinema è un’arte figurativa”».
Come storia personale, quella di Salvatores è emblematicamente una storia politica, propria del resto di un’epoca in cui il personale era politico, ovvero tutto era politica: collettivi, occupazioni, autogestioni, comuni, centri sociali, gruppi e gruppuscoli, scissioni, rifondazioni... Eppure come regista c’è questa ecletticità di fondo e un’assenza di cinema “impegnato”, sociale, di denuncia. «All’inizio facevo teatro di propaganda, in stile Brecht, ha presente, volevo essere più estremo del Piccolo Teatro... È durato un paio d’anni, fino al 1974, poi mi sono stufato, che senso aveva fare politica attraverso il teatro, tanto valeva fondare un giornale, un partito... Decisi allora di fare teatro in maniera politica, ma c’era sempre chi ti accusava di non entrare nel merito del dibattito in corso, il clima era quello... Nel ’77 misi in scena all’Elfo Le mille e una notte, erano gli anni della fantasia al potere, degli indiani metropolitani, cosa c’è di più attuale, pensavo, di una come Sharazade che ogni notte, grazie alla fantasia, si salva la vita... Dissero che non affrontavo il problema... La realtà è che il cinema politico presuppone una storia realistica, e io non so raccontare storie puramente realistiche, non mi interessa farlo. C’è poi un altro elemento: ogni Paese, in fondo, ha il governo che si merita e, come corollario, la musica che si merita, la letteratura che si merita, il cinema che si merita. Ora, che film di denuncia vuoi fare in un’Italia che smussa, adatta e scivola su ogni cosa, esalta l’arte di arrangiarsi, di sopravvivere, di risolvere solo i problemi personali? Il Citizen Kane di Orson Welles è un film shakespeariano che racconta quell’America e ha il regista in grado di darle forma... Ora, provi a paragonargli l’ultimo film di Moretti e capirà meglio quello che voglio dire, non è un paragone critico, fra registi, fra film, è che da quella America poteva uscire Quarto potere e da questa Italia esce Il caimano... ».
Con l’Italia Salvatores ha un rapporto di amore-odio. «Guardi, qui si rischia di scivolare nel qualunquismo. Avendo ormai un po’ girato il mondo posso dire che sì, naturalmente siamo un bel popolo e un bel Paese, baciato dalla natura, con una storia culturale impressionante, dove si vive bene. Ma al fondo, e dentro mi ci metto anch’io, ne faccio parte anch’io, Pulcinella e Arlecchino sono il nostro riferimento preciso, intelligenza, sveltezza, capacità di coniugare tragedia e commedia, sempre e comunque servitori di due padroni. C’è un detto napoletano che mio padre mi ripeteva sempre quando ero ragazzo: “Sei ciuccio e presuntuoso”, e noi italiani siamo così... Poi non mi piace questa tendenza al minimal, nella vita come nella politica, come nel cinema, mai il coraggio di pensare in grande, di fare cose grandi. E guardi che non è solo un problema economico, di soldi. Ho letto che Mel Gibson girerà un film sui Medici... Mel Gibson, capisce, non noi. Noi li abbiamo avuti i Medici, però ci manca l’orgoglio, o l’interesse, di raccontarli».
Siamo partiti da un sogno nel cassetto che si è realizzato, abbiamo un po’ divagato, ma c’è ancora spazio per un altro paio di desideri. «Be’, uno è intimo, privato, una famiglia, dei figli, per pudore non dico di più. L’altro, professionale, è un western. Da ragazzino andavo a vederli con mia nonna e nel western c’è un po’ tutto quello che, alla rinfusa, in questa chiacchierata le ho detto: i grandi spazi, la natura, l’avventura, l’incontro con altre civiltà, l’amicizia, l’amore... Uno dei miei film preferiti è Lawrence d’Arabia, che in fondo è un western mediorientale, uno di quei film che dentro la televisione non ci stanno, che bisognava per forza vedere sul grande schermo... Ecco, ho nostalgia di quel cinema lì, mi piacerebbe fare quel cinema lì...

».

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