Gary Cooper, ovvero l’eleganza in cinemascope

Un libro fotografico sul celebre attore che sapeva "indossare" tutte le situazioni: dalla battuta di pesca alla serata di gala

Gary Cooper, ovvero  l’eleganza in cinemascope

Vent’anni, universitario, Davide sfoglia il libro fotografico che ho sulla scrivania: Gary Cooper. Enduring Style (Powerhouse Books, pagg. 192, euro 60). «Questo sì che è un dandy - dice ammirato - non quello di Romanzo criminale che ho visto in tv. Chi era? Un attore anche lui?».
Ogni volta che citando a un giovane un nome, un fatto, un libro, un film, scorgo sul suo volto l’inespressa domanda «Di che diavolo sta parlando?», do la colpa all’età, la mia naturalmente. In fondo loro vanno avanti, e sono io che resto indietro. Però poi mi dico che quand’ero ragazzo chi fosse John Gilbert o Sarah Bernhardt lo sapevo, nonostante il mezzo secolo che separava il me di allora dalla loro morte, lo stesso arco di tempo che c’è fra la scomparsa di Cooper e la non conoscenza di Davide. Frequentare il passato mi sembrava il modo giusto per abitare meglio il presente, mentre oggi l’impressione è che si stia in un continuo, ipotetico futuro che appiattisce ogni riferimento, invecchiando di colpo ciò che era appena ieri e aprendo un buco nero su tutto ciò che l’ha preceduto. Ma, come diceva quel tale, questa è un’altra storia, ovvero un altro articolo...
Cinque anni fa il Telegraph Magazine elesse Gary Cooper come «l’attore più elegante di Hollywood», mentre il mensile Esquire lo nominò «uno dei quattro uomini più eleganti della storia dell’umanità». Di là dall’enfasi ridicola quanto arbitraria di simili classifiche, basta aprire il volume citato per comprendere come l’enduring style dell’attore americano fosse davvero tale, senza tempo e quindi eterno. Nato nel 1901 a Helena, una cittadina di frontiera dell’Indiana, di buona famiglia, suo padre era magistrato, a otto anni Gary venne mandato a studiare nel Bedforshire, in Inghilterra, patria dei suoi genitori. Fu iscritto alla Dunstable School e, come ha raccontato lui stesso, «imparò a parlare in francese, a leggere in latino, a risolvere le equazioni, a indossare un cilindro, a fare l’inchino e a dire “Grazie signore” con accento britannico».
Tornato negli Stati Uniti, completò gli studi superiori, fece il critico d’arte per il giornale del college e sognò per sé un futuro da pittore: aveva una buona mano, eccellente nei paesaggi. Nel 1924, il trasferimento della famiglia a Los Angeles mise l’aspirante artista a contatto con il mondo del cinema. Avendo dimestichezza fin da bambino con i cavalli e con la vita all’aria aperta, caccia, pesca, escursioni, campeggi, cominciò come stuntman. Dopo sei anni era già un divo, protagonista a fianco di Marlene Dietrich in Morocco...
Nel 1931, questo curioso impasto di Nuovo mondo e Vecchio continente decise di regalarsi un viaggio in Italia, a Roma. Conobbe il duca e la duchessa di Frasso, fu spesso loro ospite a Villa Madama: era ben educato, colto, buon conversatore, aveva gusto. Grazie a loro fu introdotto non solo nel bel mondo, ma in quell’insieme di arte, cultura, quotidianità, savoir faire e savoir vivre che rendeva la città un unicum, meno spocchiosa di Parigi, meno inamidata di Londra. Al suo ritorno raccontò con ironia che, tolto il monocolo, le ghette e il bastone da passeggio, aveva messo insieme il guardaroba del perfetto gentleman.
Fra gli anni ’30 e i ’50, Gary Cooper fu l’icona stessa del cinema americano, tanto che il compositore Irving Berlin riadattò nel 1946 la sua canzone Puttin’on the Ritz per includervi il suo nome. «Dressed up like a million-dollar trouper,/ Tryn’hard to look like Gary Cooper/ Super duper!» (Agghindato come un milionario,/ sforzandoti di assomigliare a Gary Cooper/ Sei un super imbroglione!)... Ma era anche l’amico preferito di Ernest Hemingway per i safari in Africa, le partite di pesca e le battute di caccia fra Key West, Cuba e l’Idaho, il frequentatore di Picasso a Cannes, di W. Avell Harriman e J.F. Kennedy a Washington e a Boston, di Hubert de Givenchy a Parigi...
Due foto nel libro raccontano al meglio questo straordinario impasto di eleganza innata e naturalezza, ogni affettazione bandita, ogni eccentricità tenuta a bada. Una, di Robert Capa, nel 1942, lo mostra mentre, canna da pesca in mano, giaccone e cappello, attraversa, in equilibrio su un tronco, un ruscello: mai visto un pescatore così ben vestito e così a proprio agio. L’altra, del 1957, lo vede nella Sala della Corona di Romanoff’s, a Beverly Hill, una coppa di champagne in mano, mentre scherza con Clark Gable e James Stewart, suoi grandi amici, sotto gli occhi un po’ intimiditi di Van Heflin. Sono tutti in frac e si capisce che quel divismo lì oggi è una chimera.
Gran seduttore, eppure sposato per tutta la vita con Veronica «Rocky» Balfe, dieci anni più giovane, sportiva, campionessa di tiro al piattello, figlia di un finanziere e nipote dell’Art Director della Mgm, Gary Cooper impersonò lo stile con la stessa facilità con cui montava a cavalo. L’alta statura, intorno al metro e novanta, il fisico slanciato, i capelli castano-chiari e gli occhi azzurri erano messi al servizio di un gusto sicuro nella scelta dei colori, così come nel rispetto dei codici, dell’etichetta. Sapeva tagliare e cucire a mano una giacca di pelle con le frange o un paio di mocassini indiani, ma non li avrebbe mai indossati per andarsene in giro in città.

La sua tenuta da sci, pantaloni neri, giubbetto e dolcevita bianchi, se paragonata con quelle attuali, relega quest’ultime fra il circo Barnum e la fiera di paese.
Scrive Ralph Lauren nell’introduzione al volume che Gary Cooper piaceva a uomini e donne «perché era ruvido e incantevole allo stesso tempo». Ecco chi era, caro Davide, Gary Cooper.

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