nostro inviato a Brescia
«Signor presidente, vorrei rendere una dichiarazione spontanea: sono innocente e perseguitato». Le parole di Guglielmo Gatti zittiscono il brusio nell'aula stipata. L'uomo accusato di aver ucciso gli zii Aldo e Luisa Donegani, di averli fatti a pezzi e sparpagliato i resti tra il lago d'Iseo e i monti della Val Camonica, è chiuso nel gabbione metallico nell'aula al primo piano del tribunale di Brescia. «Come un animale», borbotta una sua anziana vicina di casa. L'imputato è in isolamento (prima forzato, ora volontario) dal 17 agosto 2005. Curvo, scavato, camicia azzurra slacciata, maniche arrotolate, sguardo all'apparenza assente. Entra in aula alle 8,30 e fino alle 15, quando l'udienza si chiude, non prende nemmeno un bicchiere d'acqua, seduto immobile dietro le sbarre.
Cambia espressione una sola volta, quando chiede al presidente della corte, Enrico Fischetti, di parlare. Non l'aveva mai fatto: nell'interrogatorio dopo il fermo si era avvalso della facoltà di non rispondere. Tensione in un'aula dove fino a quel momento sono andate in scena le dispute procedurali di ogni udienza che inaugura un processo. Gatti viene fatto uscire, siede al microfono dei testimoni e sale in cattedra: «Vorrei far sapere che dal giorno del mio arresto sono sottoposto ad accertamenti medici e psichiatrici, mi si dice che servano per acquisire prove e testimonianze che potrebbero portare ad attribuzioni di responsabilità». L'occhiata catatonica sparisce, Gatti parla con proprietà, è padrone di sé mentre fronteggia le due pm, l'avvocato di parte civile Giovanni Orlandi e la giuria popolare della Corte d'assise di Brescia.
Il presidente lo interrompe, spiega modi e termini degli interventi, si stupisce che venga svolta «attività peritale» ignota alla procura, ma l'imputato tira dritto. «È un'attività quotidiana condotta con mezzi psicoacustici, anche in questo luogo e in questo preciso momento. Non so se sia una forma di sollecitazione o una provocazione. Chiedo alla corte che a questa attività venga posta fine». Poi l'ultima precisazione: «La parte civile ha messo in dubbio la mia posizione. Io ribadisco la mia completa innocenza e la totale estraneità ai fatti che mi vengono addebitati, l'ho già detto e lo ripeto».
Lo show è finito, Gatti lascia il palco e torna dietro le quinte. Dopo oltre un anno di isolamento voleva farsi sentire: su di lui pesa l'accusa di aver commesso un crimine orrendo, ma non è rassegnato all'ergastolo. E affila le armi anche il giovane difensore Luca Broli, che in apertura di seduta chiede la nullità dell'avviso di chiusura delle indagini: «Solo il 18 settembre scorso sono stati allegati al fascicolo documenti importanti come fotografie, filmati e planimetrie; i diritti della difesa sono stati lesi». Le pm Claudia Moregola e Paola Reggiani spiegano che il materiale è stato depositato dal comando provinciale dei carabinieri di Brescia soltanto il 15 settembre. Eccezione respinta, resta l'interrogativo sul perché l'Arma abbia atteso tanto.
Altre scintille al momento di decidere testimoni e documenti da ammettere. L'accusa inserisce anche le foto a colori di Gatti stampate l'anno scorso dal Giornale di Brescia: «L'imputato è dimagrito di 19 chili dal giorno dell'arresto - spiegano i pubblici ministeri - c'è il rischio di un'alterazione dei lineamenti, di una diversa conformazione fisica». I testimoni, soprattutto i tre occupanti di un'auto che il 1° agosto avrebbero avvistato Gatti lungo la tortuosa strada del Passo del Vivione, potrebbero non riconoscerlo più.
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