da Gerusalemme
Da quando Hamas ha organizzato l'abbattimento del muro di acciaio che divideva Gaza dall'Egitto riuscendo a realizzare uno straordinario colpo propagandistico e di prestigio per il regime fondamentalista locale, i responsabili della sicurezza israeliani non hanno dormito la notte. Mentre tutti si chiedevano quale sarebbe stata la reazione all'uccisione di Imad Mughniyeh, comandante militare degli Hezbollah (che tutto il mondo arabo attribuisce a Israele) - si parlava di un aereo senza pilota su una città israeliana o di qualche nuovo attacco suicida - i servizi di informazione avevano messo in guardia il governo su quello che Hamas stava preparando: lo sfondamento della barriera di frontiere con Israele.
Le ragioni erano comprensibili. Anzitutto l'euforia provocata nelle masse palestinesi dallo sfondamento della frontiera con l'Egitto si è rapidamente esaurita e se le condizioni materiali - pessime - non sono peggiorate quelle psicologiche sono crollate. Il regime doveva dunque fare qualcosa di nuovo e di grosso. Non poteva ripetere l'operazione di sfondamento con l'Egitto, perché il presidente Hosni Mubarak aveva pubblicamente e «diplomaticamente» fatto sapere a Hamas che, se avesse tentato di forzare la barriera, l'ordine alle truppe era di sparare senza tener conto del numero delle vittime.
I palestinesi che conoscono la brutalità delle forze di sicurezza egiziane e la poca simpatia che l'Egitto ha per i palestinesi non avevano dubbi sulle conseguenze. Un massacro fra arabi non avrebbe portato vantaggi politici o di prestigio, tanto più che nessuno dei governi arabi sarebbe venuto in aiuto di Hamas. Con Israele la questione era diversa. Israele è una cassa di risonanza mondiale, con una delle più grandi concentrazioni di rappresentati dei media del mondo.
L'operazione è stata dunque pianificata in tre fasi. La prima, annunciata dal governo di Hamas che ha detto non avere nessuna parte nella «manifestazione spontanea» delle masse affamate dall'occupazione (inesistente) israeliana, è di mobilitare per oggi a partire dalle dieci ora locale una «catena umana» lungo la frontiera: circa 40mila persone si terranno per mano dalla città meridionale di Rafah, al confine egiziano, a quella settentrionale di Bait Hanun, alla frontiera con Israele. Questo per mobilitare l'attenzione mondiale sulla «disperata situazione umana» degli abitanti di Gaza.
La seconda fase è di tentare di abbattere in uno o più punti le barriere frontali. Queste consistono di linee di filo spinato, non interamente elettrificate e che comunque non possono essere custodite su una lunghezza di 40 chilometri. Se i palestinesi riescono nel loro scopo contando sul fatto che gli israeliani non avranno il coraggio di sparare sulla folla di uomini e donne disarmati, ma cercheranno di contenerli con mezzi non letali (lanci di acqua colorata, pallottole di gomma, lacrimogeni) basterebbe che ci fosse una rottura di frontiera anche di minima larghezza e l'entrata di qualche centinaio di palestinesi sotto gli occhi delle tv di tutto il mondo perché Hamas riportasse un grosso successo di immagine e di prestigio. Ma, e questa è la terza fase, gli israeliani temono che ci sia in programma qualcosa di peggio: l'ordine di Hamas di cercare lo scontro e la vittima per potere così denunciare al mondo la brutalità israeliana.
Questo spiega perché da avant'ieri i capi delle forze di sicurezza israeliane siano in seduta quasi permanente per decidere come reagire. Il premier Ehud Olmert, partito ieri per una visita ufficiale in Giappone, si mostra comunque calmo e assicura che tutte le misure necessarie sono state prese.
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