In una realtà urbana ritratta come il più classico dei Far West, un ingegnere (Franco Nero) si sente in dovere di portare avanti la propria «missione» contro la violenza metropolitana dilagante. Tale è il fulcro narrativo de «Il cittadino si ribella», una produzione del 1974 diretta da Enzo G. Castellari, che racconta la vicenda di un onesto lavoratore rimasto sotto choc per essere stato prima derubato durante una rapina alle poste, poi sequestrato e malmenato per aver opposto resistenza. Sconvolto dall'avvenimento, non riesce ad accettare la lentezza e la superficialità delle indagini e decide di vendicarsi da solo. La ricerca ossessiva dei rapinatori lo porta a ritrovarsi l'abitazione in fiamme (nella quale era custodito, come ci viene mostrato nel prologo, un quadro lasciatogli in dono dal padre con sopra impresso a lettere cubitali il motto partigiano «Italiani, ribellatevi!») e a fare amicizia con un malavitoso di nome Tommy, che però vedrà barbaramente trucidato a causa di questo rapporto. Dopo essere riuscito faticosamente ad eliminare i rapinatori, nel finale il protagonista osserva speranzoso un altro cittadino appena rapinato che mormora «la gente è stufa».
All'interno di un contesto così particolare e di una narrazione così dinamica, emerge la principale caratteristica di Genova che la portò ad ospitare un numero così elevato di produzioni: la varietà di set naturali che può offrire e quindi la sua polivalenza. Si può notare ad esempio un lungo inseguimento automobilistico iniziale nel quale si effettua un vero e proprio giro panoramico della zona centrale e del lungomare, da piazza Rossetti a Boccadasse passando per corso Italia, poi via XX Settembre, corso Podestà, zona Caricamento. Questa prima caratterizzazione paesaggistica viene successivamente messa in contrasto, parallelamente con l'infittirsi della trama, con altri scenari sicuramente più inquietanti e carichi di tensione. È evidente un ampio utilizzo della zona portuale e dei container durante la fase del sequestro, accostati alle ciminiere delle fabbriche e alle navi che fungono da sfondo. Infine c'è spazio anche per la zona periferica (presumibilmente dalle parti di Lungomare Canepa) nella quale si svolgono i fatti finali più sanguinosi.
È proprio nella scena finale del garage che viene rappresentata metaforicamente la condizione del cittadino onesto suggerita da quest'opera: un uomo spaesato di fronte all'illegalità, accerchiato dai malavitosi, esasperato, impaurito ma pronto a divincolarsi con tutte le forze di cui dispone. Questa lotta però, come era già chiaro nel film «La polizia incrimina, la legge assolve», deve essere portata avanti in totale isolamento. Per questo motivo l'uomo onesto è costretto ad indossare le stereotipate vesti del giustiziere solitario, che obiettivamente tanto aiutano la narrazione a guadagnare pathos e a coinvolgere lo spettatore, quanto la fanno allontanare da regimi di credibilità e realismo. I polizieschi all'italiana hanno spesso finalità critiche nei confronti del corpo di polizia; c'è però una lieve differenza tra la pellicola del '73 sempre di Castellari e questo film: nel primo caso l'oggetto di disapprovazione consiste nella collusione tra stato e malavita, in questo caso sembra piuttosto essere la svogliatezza e il disinteresse di chi dovrebbe essere al servizio del cittadino.
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