Che cosa celebra la storia di un Club sportivo? Una memoria certo, principalmente agonistica, che è affidata alle generazioni, ma anche cucita insieme dall'appartenenza ad un mondo sociale che, se parliamo di tennis, è stato da principio, e non solo a Genova, un'aristocrazia della nascita e del denaro.
Il Tennis Club Genova - perché ne celebriamo i suoi 120 anni - lo testimonia. Nato nel 1893 agli Orti Sauli, nel quartiere di San Vincenzo, i suoi primi quattro campi da tennis appartengono ad una antica villa patrizia: come per il calcio i suoi promotori sono inglesi e se scorriamo l'elenco dei suoi primi soci e del suo primo presidente, Nino Brocchi, troviamo personalità influenti e facoltose come Beppe Croce, Enrico Bocciardo ed il marchese Pierino Negrotto Cambiaso, il primo campione del Circolo. Vent'anni dopo il Tennis Club Genova, ha in Beppe Croce un presidente che è anche, soprattutto, a capo della Fit, e nel conte Mino Balbi di Robecco il campione capace di fregiarsi di ben 10 titoli italiani assoluti.
È dunque una sociologia degli stili di vita ed una storia economica della città a specchiarsi nella vita del circolo. Sono le nuove aristocrazie dei traffici, dell'industria e delle professioni, a fondare e consolidarne un prestigio che porta il Tc a ospitare nel 1928 un vittorioso Italia-Australia di Coppa Davis (De Stefani, De Morpurgo e Gaslini vincono 4-1) e a conoscere ancora altri prestigiosi appuntamenti con l'insalatiera: nel 1930 contro il Giappone (3-2), nel 1932 contro l'Egitto (3-2) e nel 1933 contro l'Australia. È il motore della città e del suo dinamismo ad alimentare la macchina del prestigio del Circolo. Poi con la guerra inizierà un'altra storia.
Presidente del Circolo - e Presidente di Confindustria! - Angelo Costa accompagna la ricostruzione del Tennis dopo le ferite del conflitto e la prima follia urbanistica della città (1959): spariscono tre campi, compreso il Centrale, per far posto al liceo scientifico Cassini e all'artistico Barabino. La lunga Presidenza di Angelo Costa si conclude a metà degli anni Settanta: Gian Vittorio Cauvin, Gianpiero Mondini e Aldo Mordiglia continuano e confermano l'immagine di una classe dirigente che si specchia nella vita del Circolo. È l'immagine di una città tradizionale, seria e attempata che non conosce le increspature e le promozioni sociali dei cugini del Park. Ma è una storia ormai diversa quella che si affaccia e si prepara: quella che non conosce più nel successo della città il successo del Club. Con la fine degli anni '60 è iniziato il declino di Genova. E questa asimmetria diventerà tanto più evidente nel 1986, con la Presidenza di Giorgio Messina, il quale così corona la passione, l'intelligenza e il mecenatismo di cui aveva dato prova come dirigente sportivo. Era già stato infatti responsabile del Comitato Regionale Fit e capo della Commissione Sportiva portando il Tc Genova a conquistare lo scudetto della serie A maschile (1979), un'affermazione che conoscerà ancora da presidente, in campo femminile, nel 1998, anno in cui regala a Genova la Davis contro l'India, nello stadio Beppe Croce di Valletta Cambiaso. Con Giorgio Messina, dunque, il palmarès del Tc Genova diventa assai più importante di quello della città. Conquista, nel 1996, il Trofeo Fit, destinato al Club con i migliori risultati nelle gare a squadre. E lo stesso accadrà nel 1999 e nel 2001. Sarebbe stupido immaginare che la storia finisca qui, con la sua scomparsa, cinque anni fa. La sua riservatezza operosa, la stanca dolcezza del sorriso non lo avrebbero certo voluto. E c'è una Scuola di tennis che nel suo nome continua oggi ad allevare, e coltivare, nuovi talenti verso una disciplina che è tornata a rinchiudersi. Finiti i fuochi di artificio della Davis italiana - alla fine degli anni 70, complice la Tv - si è interrotto quel flusso di popolarità, di democratizzazione e di leva di massa che aveva portato al tennis nuovi strati sociali (e nuova voglia di vincere). Tocca alla leonessa Schiavone, a Pennetta, Vinci, Errani, alle ragazze d'Italia dare la sveglia a questo sonno che non vuole finire. Così ci tocca guardare maledettamente indietro: a quel campo che non c'è più, che per la prima volta avevamo visto, magico, e che una foto ci riconsegna ancora. Un torneo internazionale, il pubblico assiepato nel silenzio dello scambio, rotto dal rimbalzo della palla e da qualche corsa affannosa. E se guardi bene tra il pubblico ci trovi anche lui, Memo, le mie prime partite, l'alfa e l'omega di un tennis che rigiochiamo insieme 50 anni dopo... E certo anche Fuffetto, i nostri nomi di bambini. Il passo ormai incerto del dottor Giacca, l'avvocato Maffei, Jean Lercari, Billo, Emilio detto Elmus, la Chiara, Cillin Caimo (lui sì che avrebbe potuto portare l'Italia in cielo), Titone Tasso, la mia cara zia Maria Teresa e la Gerda con i suoi fiori e Visse e Sestilio con il suo bastone e papà Mossa e Franchino e la mamma Gianna, poi molto più tardi Fanini (Fanizomai) e quella finale che abbiamo lasciato a Pisano-Samengo troppo più collaudati di noi. E il mio compagno Gian (Enrico) ai tempi della Coppa Moral che dobbiamo a Santino Pesce ed ai suoi sparring partner Ansaldo, Figlio-meni e certo anche Melampone e Marsano. Mentre Romanengo e Traverso preferiscono il golf. E nessuno si offenda per le dimenticanze (i tesserati di oggi sono oltre 700!) di una memoria smemorata e di ricordi scolpiti inesorabilmente in una sola generazione, la mia, che scrive dunque una storia parziale, piena di buchi e omissioni. Quel che conta, ora, è la festa e la certezza che questo guardare indietro metta in moto non solo la voglia di raccontare e celebrare (che è la benzina di ogni buona appartenenza) ma sia un prepararsi al futuro. Che i campi conoscano tanti nuovi giocatori, che si popolìno di bambini. Il tennis può dare molto ad una città che non trova di meglio dell'interrogarsi «se è morta»: la solitudine del giocatore, la responsabilità per l'errore, la sfida continua del fare o del perdere il punto, sono una disciplina del coraggio e della mente capace di temprare nuovi genovesi.
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