È lo stesso clamoroso, patetico abbaglio in cui cadde Saddam Hussein quando si trovò con le spalle al muro. Labbaglio, lequivoco, è quello di non credere possibile che una lunga vita di trionfi, di successi, di ricatti tutti perfettamente congegnati e riusciti; che una vita da capo supremo circondato da tutto ciò che cuore umano possa desiderare -denaro donne potere fino alla più smaccata devozione dei sudditi e al rispetto del resto del mondo- possa crollare come il classico castello di carte, svaporare come una nuvoletta di gas di scarico nel volgere di una manciata di giorni.
Fino allultimo, incurante dei rintocchi di una campana che sta suonando proprio per lui, il vecchio capoclan beduino si rifiuta di credere che la sorte possa essergli a tal punto matrigna. Minaccia di «scatenare linferno» contro francesi e inglesi che hanno osato sfidalo. È il culmine della sua megalomania. Come Saddam Hussein, quando già il suo quartier generale bruciava sotto le bombe e i missili cruise americani, anche il vecchio colonnello è convinto che limponderabile, la fortuna dei gambler possano rovesciare le sorti di una partita che appare definitivamente perduta. Come Saddam, anche Gheddafi pensa (sogna) che il mondo arabo si solleverà contro il Satana americano, dimenticando che la solidarietà musulmana al quale fa appello è un fatto semplicemente «non pervenuto» sulla scena della Storia mediorientale. Così, cullando le sue puerili illusioni, Gheddafi manda ora davanti ai microfoni il suo viceministro degli Esteri, Khaled Kaaim, a sparare la più fantasiosa, la più improbabile, la più temeraria delle fesserie. «Se ci sarà un attacco o un intervento straniero, non saranno soltanto i libici a battersi, ma vedrete accanto a noi algerini, tunisini, egiziani», dice infatti Kaaim. La seconda mossa, dettata dalla disperazione, è quella delle minacce e delle blandizie. Le blandizie, in questa bislacca diplomazia della ventiquattresima ora, sono rivolte al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, al quale il rais si è rivolto ieri definendolo «un figlio». Le minacce sono per i rinnegati Sarkozy, per Cameron e per il segretario generale dellOnu Ban Ki Moon, accusati di «aggredire senza alcun diritto» il suo Paese. A Obama, figlio di un africano come lui, e dunque «mezzo parente», il colonnello si rivolge come se avesse fumato crack, e ora fosse perso in una sorta di delirio narcisistico.
«A nostro figlio, sua eccellenza Barack Hussein Obama», esordisce Gheddafi. A seguire, ecco il vaneggiamento. «Io le ho detto che perfino se la Libia e gli Stati Uniti dAmerica scendessero in guerra, Dio non voglia, lei resterà sempre un figlio. Io voglio che lei rimanga tale. La sua immagine non cambierà». Poi, dopo tanta carota, ecco lombra del bastone. «Io ho tutto il popolo della Libia con me e sono pronto a morire. Abbiamo tutti gli uomini, i bambini e le donne con me». Come dire: dovrete passare sul corpo di tutta una nazione prima di arrivare a me. Sì, sembra proprio di sentire la voce di Saddam Hussein dalloltretomba. La stessa incapacità di leggere la realtà. La stessa incapacità di leggere la storia. Eppure non sono passati tanti anni dal giorno in cui gli americani andarono a prendere il califfo di Bagdad in quel buco scavato sotto una stuoia, in una casupola di campagna, abbandonato da tutti, solo come un cane. Possibile che non ricordi le immagini atroci, umilianti, di un soldato americano che guarda con una torcia nelle fauci del rais, ormai ridotto a un ostaggio di pezza nelle mani del nemico?
Nella sua lettera a Obama, Gheddafi gioca ancora la sua puerile carta del bastione antiterrorista. Lui il bastione; i ribelli di Bengasi terroristi al soldo di Al Qaida. «Al Qaida è una organizzazione armata, che passa attraverso lAlgeria, la Mauritania e il Mali - scrive nella sua lettera il colonnello - che cosa fareste voi se scopriste che i terroristi controllano le città americane con la forza delle armi? Cosa fareste? Ditelo. Così posso seguire il vostro esempio».
Per Sarkozy, Cameron e Ban Ki Moon, solo minacce. «Se interverrete nei nostri affari interni ve ne pentirete. La Libia non è vostra. Voi non avete il diritto di intervenire nelle nostre questioni interne. Questo è il nostro Paese, non è il vostro Paese. Noi non potremmo sparare un solo proiettile contro il nostro popolo». Non pago, il Rais in serata ha sparato a zero dagli schermi della tv di Stato libica. In un messaggio audio, ha minacciato di attaccare obiettivi «civili e militari» nel Mediterraneo, che diventerà «un campo di battaglia».
Ma è ormai il vaniloquio di un disperato che vede le ombre della notte, punteggiate dai bagliori delle bombe nemiche, allungarsi su di lui e sul suo regime.
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