Si potrebbe raccontare la solita storia di quando Fini, nel 1968, si trovò davanti al cinema che programmava Berretti verdi, imbattendosi in un gruppo di ragazzotti di sinistra che contestava la proiezione. E anche il giovane Gianfranco si beccò la sua dose di spintoni, sputi, calci e insulti perché voleva semplicemente entrare al cinema.
Oppure, si potrebbe dire dell’abbronzatura straordinaria con cui il neopresidente della Camera si è presentato in aula, retaggio del week-end del 25 aprile passato a Lampedusa a fare immersioni. E del probabile straordinario feeling che dovrebbe legare Fini a Renato Schifani, anche lui appassionatissimo di pesca subacquea e di immersioni sui fondali. Roba da fare i summit istituzionali a venti metri di profondità, senza che la dizione «accordi sotterranei» possa fare pensare a nulla di negativo.
O, ancora, si potrebbe partire dal discorso dell’ipermercato di fine 1993, quando Silvio Berlusconi, che ancora non aveva annunciato l’ingresso diretto in politica, disse dieci parole passate alla pubblicistica come «lo sdoganamento» di Fini e del Movimento sociale: «Se votassi a Roma la mia preferenza andrebbe a Fini».
Ma raccontare di Fini per John Wayne, per l’abbronzatura o per lo sdoganamento (e vi risparmio le questioni sentimentali con cui il leader di An è stato, spesso vergognosamente, bersagliato), sarebbe assolutamente riduttivo e sbagliato. Perché il neopresidente della Camera ha una personalità e una statura politica che vanno oltre la figurina Panini della sua storia e persino oltre la straordinaria capacità dialettica nei discorsi parlamentari, di cui Fini ha dato prova anche ieri nel discorso d’insediamento.
Ecco, le parole. Forse conviene partire proprio dalla capacità di usare le parole, soprattutto in aula, di Gianfranco Fini, eredità diretta del suo inventore Giorgio Almirante, che lo scelse come leader del Fronte della gioventù dopo che al congresso giovanile era arrivato quinto nelle preferenze su sette eletti nella segreteria del movimento giovanile missino. Un blitz assolutamente a norma di statuto. Un metodo mai dimenticato da Gianfranco che ha fatto lo stesso tante volte in An, creando e distruggendo dal nulla dirigenti. A volte perfetti carneadi elevati al ruolo di statisti per una stagione, nel senso di tre mesi e poi spariti nel dimenticatoio. A volte, con una crudeltà (politica, chiaro) incredibile, sulla pelle di amicizie, storie e sofferenze. A volte, quasi per sfregio, per umiliare chi aveva sbagliato, anche se era un amico.
Del resto, è un freddo, Fini. L’ha spiegato lui stesso, proprio ieri, senza tradire emozione particolare per l’elezione alla terza carica dello Stato: «È il mio carattere, sono un Capricorno». E, come tutti i Capricorno, Fini non dimentica: ieri, ad esempio, il suo passaggio su Cossiga e Ciampi, con il rumorosissimo silenzio su Scalfaro, è stato un capolavoro di apprezzabilissima perfidia. Così come è stato prezioso il ricordo dei periodi del Picconatore, di cui - complice la strategia mediatica dell’allora portavoce finiano Francesco Storace - per qualche mese si presentò come una specie di ventriloquo. Mica era vero che Fini era sempre l’interprete autentico del Colle. Ma Cossiga non smentiva e Gianfranco ci costruì l’inizio delle sue fortune.
Rovescio della medaglia. Come tutti i Capricorno, il neopresidente della Camera ha una costanza e una perseveranza incredibile e, quando si pone un obiettivo, prima o poi lo raggiunge. Del resto, è chiaro che un politico che prende in mano un partito ai margini dello schieramento politico, addirittura escluso dall’«arco costituzionale», addirittura «nella fogna», e riesce a portarlo al governo, al Campidoglio, alla vicepresidenza del Consiglio, alla Farnesina e addirittura alla presidenza della Camera, quello è un grandissimo politico. È stato un percorso lungo, a volte accidentato, con Fini sempre due o tre passi avanti rispetto al suo partito. A volte troppo avanti, quasi con un’ansia catartica eccessiva: la battuta sul «male assoluto» che era correttamente riferita alle leggi razziali è stata poi estesa a tutto il fascismo; le rotture su fecondazione assistita e famiglie di fatto erano poco in linea con il suo elettorato di allora. Ma - e proprio qui Gianfranco si è dimostrato leader vero, al di là di come la si pensi sulle singole questioni - Fini è andato avanti per la sua strada, a volte precedendo la sua base. A volte, invece, imboccando proprio un percorso diverso. A volte, sbagliando. Che, certo, è comunque più difficile di assecondare sempre e comunque i suoi.
La grandezza di Fini è stata anche quella di costruire dai suoi errori. Negli anni, ad esempio (a parere di chi scrive, ci mancherebbe altro), Fini ha sbagliato nell’ossessione sulle leggi elettorali, passando da un eccesso di proporzionalismo a un eccesso di uninominalismo. E poi ha sbagliato, insieme agli ex Dc di sinistra, a bloccare il governo Maccanico nel 1996, aprendo le porte alla vittoria di Prodi. E poi ha sbagliato con l’Elefantino alle Europee. E poi ha sbagliato a pretendere la testa di Tremonti nel secondo governo Berlusconi, con il subgoverno insieme a Casini e Follini. E poi ha sbagliato con la lettera al Corriere in cui scaricava tutta la rabbia per il fallimento della spallata nel dicembre scorso, quasi mettendo in soffitta il Cav, come un qualunque Casini. E poi ha sbagliato (come in parte ha sbagliato anche Berlusconi nel continuo botta e risposta) con le ruvidezze dialettiche sulle «comiche finali», sul «demolitore della Casa delle libertà» e su «io ho vent’anni di meno».
Ma, la politica è anche saper cambiare idea. Parlarsi. Capirsi. Venirsi incontro. Cancellare i «mai».
Perché questa è la politica: capire anche le ragioni degli altri. Soprattutto se si ha un ruolo istituzionale. Sarà un ottimo presidente della Camera, Gianfranco Fini.
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