Milano Per Roberto Mancini l’ora della vendetta non è ancora suonata. Perché lui, unico allenatore al mondo cacciato dopo avere vinto lo scudetto, della sua opinione non ha mai fatto mistero: le intercettazioni che gli piombarono addosso a mezzo stampa la mattina del 15 maggio 2008, rivelando al mondo le sue chiacchierate con un narcotrafficante di nome Domenico Brescia, vennero allungate ai giornali dai vertici dell’Inter per metterlo in difficoltà a tre giorni dalla sfida scudetto con il Siena, e per preparare il suo licenziamento. Questo pensa Mancini, e ha sempre detto in giro.
Di tutto questo non c’è ombra di prova. Ma l’inchiesta su quella fuga di notizie si sta trasformando ugualmente in un pasticcio di dimensioni imprevedibili. Almeno di questo, Mancini può essere soddisfatto: in un Paese in cui è stato pubblicato di tutto senza che mai accadesse nulla, nessuna «gola profonda» venisse mai identificata, incriminata né tanto meno condannata, invece sul caso Mancini è stata compiuta una indagine gigantesca. I tre protagonisti inevitabili della vicenda - carabinieri, magistrati, giornalisti - si sono scontrati e continuano a scontrarsi. E ieri arriva a ingarbugliare ulteriormente tutto l’ultimo passaggio: l’inchiesta per capire chi abbia spifferato a Corriere e Giornale quelle telefonate è stata spostata da Milano a Brescia. Come prevede il codice - ahi ahi - quando c’è il sospetto che il colpevole sia un magistrato di Milano.
La sequenza degli avvenimenti merita di essere raccontata. Un anno fa, quando le intercettazioni finiscono in pagina, Mancini non è l’unico ad incavolarsi di brutto. Quanto e più di lui si imbestia Manlio Minale, procuratore della Repubblica, che ordina di aprire una inchiesta e la affida ad uno dei suoi pm di punta: Stefano Civardi, uno che di queste cose ci mastica anche perché ha indagato sulla security Telecom (Tavaroli, servizi segreti, e anche lì c’era di mezzo l’Inter). Civardi parte a testa bassa, interroga giornalisti, ne incrimina uno per favoreggiamento, va a frugare nei pass e nei computer dei carabinieri del Ros e arriva alla conclusione che a cantare è stato un alto ufficiale: il colonnello Mario Mettifogo, capo del Ros di Milano, uno vero, uno che ha dato anni della sua vita nella trincea siciliana. Civardi chiede il suo rinvio a giudizio. Nel frattempo nel calderone dell’indagine finisce un po’ di tutto. I tabulati telefonici di un mucchio di giornalisti. I nomi di magistrati, carabinieri, poliziotti in rapporto con i media. Perfino il surreale rapporto commissionato da Civardi a un vigile urbano che ipotizza che l’Inter di Mancini abbia rallentato la corsa allo scudetto per alzare le quote delle scommesse.
Quando il difensore di Mettifogo va a leggere le carte, nota che c’è un solo numero di telefono cui Civardi ha rinunciato a dare un nome. Indaga. E scopre che è il numero di Marcello Musso, il pm che conduceva l’inchiesta sul narcotrafficante Brescia, e che ordinò quelle intercettazioni. Intanto il processo voluto da Civardi contro il colonnello Mettifogo arriva davanti al giudice. E qui per la Procura milanese arriva la batosta. Perché il giudice Giuseppe Gennari si mette anche lui a scavare, approfondire, interrogare: temendo, forse, che Civardi abbia indagato molto, ma in una sola direzione. Scopre che le intercettazioni di Roberto Mancini erano, nel tribunale di Milano, un segreto non del tutto segreto. Acquisisce una lettera di un giornalista del Corriere della sera, che scagiona apertamente Mettifogo. A quel punto, assolve il colonnello con formula piena. Non è stato lui a passare le intercettazioni.
Ma Gennari non si ferma lì. Rispedisce il fascicolo alla Procura invitandola a «valutare» se mandare tutto quanto a Brescia. Minale ci pensa un po’, poi accoglie l’invito. Sarà la Procura di Brescia, adesso, a cercare di capire come quelle chiacchierate sgattaiolarono fuori dal segreto istruttorio.
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