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Giallo sui tre italiani fuggiti dal carcere politico

L’unica verità certificata è la liberazione dei tre ostaggi italiani. Un lieto fine che dovrebbe concretizzarsi oggi stesso col rientro in Italia a bordo di una nave, insieme ai quattro giornalisti vittime del sequestro lampo avvenuto tre giorni fa. I tre, sotto la protezione dei ribelli, adesso sono alloggiati nello stesso albergo, il «Corinthia» di Tripoli, dove si trovano la maggior parte dei giornalisti, inviati dai mezzi di informazione italiani e stranieri.
I tre italiani, Antonio Cataldo, 27anni, di Chiusano di San Domenico (Avellino), Luca Boero, 42 anni, di Genova e Vittorio Carella, 42 anni, di Peschiera Borromeo (Milano), erano stati sequestrati lo scorso 23 luglio in territorio tunisino, ma vicino al confine libico, e consegnati alle truppe lealiste fedeli a Gheddafi. Lo scorso 21 agosto, dopo 29 giorni di prigionia sarebbero stati liberati da una delle carceri di Tripoli, probabilmente quella del quartiere Abu Salim, una delle più dure e violente.
Sui motivi della presenza di Cataldo, Boero e Carella poco lontano dal territorio libico è mistero. Si sospetta che lavorassero come contractor, operatori della sicurezza privata per conto di famiglie benestanti libiche, ma la circostanza non ha trovato riscontri. Alcuni «colleghi» italiani, interpellati, dicono di non avere mai sentito quei nomi. Comprensibilmente ancora terrorizzato Boero, un bodyguard che ha lavorato in numerosi locali notturni di Genova come addetto alla sicurezza, esperto di arti marziali e piuttosto noto nel suo settore. Ha spiegato che «i chiarimenti sulla nostra vicenda li daremo quando saremo rientrati in Italia», perché, ovviamente, «qui in Libia non ci sentiamo sicuri». Boero ha poi rivelato: «Siamo stati presi in Tunisia, dove avevamo un incontro vicino a Bengarden. Poi siamo stati consegnati alle forze regolari del vecchio governo di Gheddafi».
Spiega uno dei tre liberati: «Dal 23 di luglio siamo scomparsi come nel nulla e ci ha ritrovati cinque giorni fa un gruppo di ribelli: hanno assaltato un carcere, hanno liberato i prigionieri all’interno lasciando uscire tutti quanti, probabilmente per avere più uomini possibili per combattere a Tripoli». «Gli uomini di Gheddafi volevano sapere se eravamo delle spie - prosegue l’italiano nel suo racconto - chi ci aveva mandato, chi ci pagava, che cosa facevamo lì. Mi hanno preso a calci, mi hanno preso a pugni in faccia».
A Chiusano di San Domenico, piccolo centro alle porte di Avellino, duemila anime, tutte concentrate in pochi chilometri quadrati, non sono in tanti a dire di conoscere Cataldo.

Il clima che si respira in paese alla notizia della prigionia di un mese e della liberazione del loro concittadino è quasi omertoso. «Preferiamo farci i fatti nostri», tagliano corto al bar centrale. Anche la signora Graziella, madre di Antonio è sbrigativa. «Sì, eravamo preoccupati», e poi scappa.

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