Mario Sechi
da Roma
Cè chi lo ritrae di spalle (Liberazione), nella posa plastica che un tempo era unesclusiva di Giulio Andreotti e cè chi lo dipinge in un gioco del paradosso come «un incappucciato grigio» che deluderà la destra perché in realtà «non lavora per il re di Prussia» (Europa). Massimo DAlema sta alla politica italiana come il canto delle streghe nel Macbeth di Shakespeare: «Il bello è brutto, il brutto è bello». Sulle sue gesta politiche si alterna una danza gioiosa e macabra e lui non fa niente per sottrarsi a questa leggenda. Fu il formidabile Espresso orchestrato da Claudio Rinaldi e Giampaolo Pansa a creare quella sorta di ircocervo della politica che passò alla storia come «Dalemoni», la fusione del suo cognome con quello di Berlusconi; allora fu un gioco giornalistico, una trovata da copertina che poi divenne licona del dalemismo applicato alla politica. E invece oggi cè chi giura che non è affatto «Dalemoni» quello che al Corriere della Sera confida i suoi timori sulla governabilità e la necessità di «una comune assunzione di responsabilità». È il capitan DAlema che parla, quello che dal timone dellIcarus vede allorizzonte gli scogli della crisi se non si trova un accordo con il centrodestra. Le sue carte nautiche segnano le secche di Palazzo Madama, i bassi fondali del Quirinale, le correnti minacciose di Montecitorio e il suo equipaggio ha cominciato a muoversi subito sul ponte per non far colare a picco la nave ulivista al primo giro di boa. Prima Gavino Angius, poi Peppino Caldarola e Vannino Chiti, tutti a battere messaggi in codice morse, tutti pronti a sostenere la rotta del capitano. Appena tre mesi fa, nel gennaio polare del caso Unipol, DAlema appariva stretto tra la difesa e lattacco. Esitante. Troppo per uno che guardando dallalto verso il basso linterlocutore riusciva a dire anche in quei giorni: «Lunico difetto che mi rimprovero è leccesso di bontà».
Il 21 gennaio, nel pieno dellOpa selvaggia, il presidente ds incontrava i segretari di sezione del partito, spronava tutti a reagire, respingeva lopposizione interna di Mussi e Salvi poi profetizzava un percorso accidentato fino al 9 aprile: «Non sarà un cammino agevole quello di questi 78 giorni».
In quei mesi sembrava un combattente ferito e il manifesto lo dipingeva come «lodiato più amato». Passata la buriana, ha ripreso il timone e quel tono che lha reso impareggiabile nellarte di scartavetrare le parole in faccia allavversario. Subito dopo il voto, in preda a unautentica sbornia da exit poll, è quello che dichiara «è un risultato di portata storica, è finita la stagione del berlusconismo».
È il DAlema che si esibisce nella battuta scalciante, ma è anche quello che, passata a nuttata, per primo capisce che la stagione del Cavaliere non è affatto chiusa, è solo un secondo tempo di un film di cui non si vedono per ora i titoli di coda. Il presidente esce dallombra della Quercia e fa la proposta che avrebbe dovuto fare per primo il podista dellUnione, Romano Prodi.
Non è un caso che Silvio Berlusconi gli risponda a stretto giro di posta. Il Cavaliere in fondo lha sempre considerato «il vero capo della sinistra» e dai tempi della Bicamerale i due si ritrovano sulla strada di quella che finora è sempre apparsa e continua a essere la mission impossible degli ultimi dodici anni di storia italiana: varare una politica bipartisan sullagenda istituzionale. Gli anti-dalemiani dellUnione facevano perfidamente notare come nellintervista sul Corriere della Sera fosse assente il primo punto del programma dellUnione: il conflitto di interessi. Riappare il fantasma della Bicamerale e lagguerrito sciame di vespe da cui DAlema si è dovuto difendere. Il club di Micromega ne fece subito un cavallo di battaglia. Tra loro, anche il professor Paolo Sylos Labini, che nel novembre del 2001 incrociò la penna proprio con DAlema. SullUnità il leader ds si difese dicendo che «fu Berlusconi a rompere e a far fallire il disegno della Bicamerale. Prova questa indubitabile che nel progetto di riforme non si nascondeva alcuna oscura concessione sui principi e sui valori, come pure invece si è poi detto in questi anni. E da questa rottura comincia la sua rivincita. Anche perché egli non pagò alcun prezzo e fu anzi aiutato dalla campagna sull«inciucio» che, sostenuta in modo aspro anche da una parte della opinione del centrosinistra, gli spianò la strada scaricandolo di ogni responsabilità per aver fatto fallire le riforme costituzionali». Il passato ritorna e si ribalta. Allora fu Berlusconi ad abbandonare il tavolo delle riforme. Non si fidava. Oggi DAlema gioca le sue carte e nella manica nasconde il personale asso del Quirinale, ma quando Berlusconi decide di fare un rilancio alzando la posta con un full di larghe intese, il presidente ds passa la mano: «No al governissimo».
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