Gioielliere uccise il rapinatore: «Lo rifarei»

Ieri in aula i commercianti di via Ripamonti

Enrico Lagattolla

«Sinceramente sì, rifarei quello che ho fatto». L’udienza è conclusa. Fuori dall’aula, Giuseppe Maiocchi. Il gioielliere imputato assieme al figlio Rocco per l’omicidio del montenegrino Mihilo Markovich, colpito da un proiettile esploso dopo un tentativo fallito di rapina, ne è convinto. E lo ripete. «Io continuo a pensare di aver fatto quello che ho fatto per difendere me e i miei familiari».
Ancora qualche parola, prima di tornare al silenzio con cui ha da sempre accompagnato la vicenda. «Ritengo che quando una persona, qualsiasi persona, viene aggredita da uno armato, ha diritto di difendersi». Nient’altro.
Un’ora prima, in aula, erano sfilati i testimoni. Investigatori, che hanno cercato di ricostruire la vicenda, e commercianti di via Ripamonti, che avevano assistito alla scena. «Ricordo che c’era un silenzio di tomba», è il racconto di uno dei testimoni. «Ho sentito dei colpi fortissimi e ho visto una persona che con un martello spaccava la vetrina. Ho pensato: questo è pazzo. Allora sono corso alla caserma dei carabinieri e ho bussato per dire che era in corso una rapina. In quel momento, mentre parlavo con un carabiniere, ho sentito degli spari». Tre, esplosi a breve distanza l’uno dall’altro. Così ricostruisce il teste, che nota il gioielliere sulla porta del proprio negozio accanto al figlio, alla sua sinistra. «Quindi ho visto un individuo uscire da una macchina a gattoni e mettersi a correre. Subito dopo Giuseppe Maiocchi mi ha gridato di chiamare un’ambulanza». In quell’auto siede privo di sensi Mihilo Markovich, 21 anni, colpito a morte. Era il 13 aprile del 2004, in via Ripamonti. I due montenegrini avevano tentato una rapina alla gioielleria della famiglia Maiocchi, cercando di sfondare le vetrate colpendole con una mazza. Giuseppe, il padre, e il figlio Rocco escono dal negozio, e raggiungono i due montenegrini. Vengono esplosi dei colpi di pistola. Uno colpisce Markovic, seduto nell’auto ferma a lato della strada, a motore spento. «Ricorda se Rocco impugnava una pistola?», domanda il pubblico ministero Roberta Brera. «No - risponde il teste - non ricordo». Ma sul ragazzo pesa la consulenza degli agenti della polizia scientifica, secondo cui il colpo mortale proveniva proprio dalla sua pistola. Ancora, racconta un secondo commerciante che «in strada c’era molta gente. Passanti e persone in attesa alla fermata dell’autobus. Ho sentito dei colpi, poi tre spari ravvicinati, e un quarto dopo pochi istanti».


A udienza terminata, l’imputato ripete quanto già detto in altre occasioni. «Lo rifarei per difendermi». Il processo viene aggiornato a venerdì prossimo. Quando, davanti ai giudici della prima Corte d’Assise, saranno sentiti la sorella del gioielliere, e la madre della vittima.

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