Linsana passione, a lungo covata, esplose il 1° settembre 1980, alletà di 22 anni. È da allora che Enrico Borellini colleziona ogni giorno le edizioni di Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Giornale, Sole 24 Ore, Messaggero e Manifesto. A mano a mano che esordivano in edicola, ha aggiunto Reporter, Liberazione, Voce, Foglio, Libero, Riformista, Europa, Fatto Quotidiano e qualche altra testata. Nel periodo in cui è stato alle dipendenze di un partito ha potuto mettere da parte tutte le mattine una succulenta mazzetta formata da ben 22 quotidiani, inclusi Il Popolo e LUmanità, organi ufficiali, e semiclandestini, della Dc e del Psdi.
Fino a ieri erano trascorsi 11.548 giorni. Calcolando (per difetto) una media di 10 testate archiviate, sono 115.480 copie. Calcolando (sempre per difetto) che un quotidiano di solito è un etto e mezzo di roba - Il Giornale di venerdì pesava 128 grammi, ma il Corriere arrivava a 240 - fanno 17.322 chilogrammi. Ora la domanda è: dove accidenti si stivano oltre 17 tonnellate di carta? Borellini le ha tentate tutte: prima ha occupato salotto, camere da letto, corridoi, cantina, garage e ogni altro anfratto della villa di famiglia a Ronciglione (Viterbo); poi ha intasato il pied-à-terre che aveva affittato a Verona, dove sera trasferito per lavoro; infine ha stipato un appartamento a Roma, dalle parti di Porta Pia. Ovviamente non sono bastati. Perciò, cinque anni fa, sè rivolto alla Cassa rurale di Ronciglione e ha stipulato un mutuo ventennale che gli è servito per comprarsi un capannone nella zona artigianale del pittoresco paesino della Tuscia. Un deposito di 256 metri quadrati tutto per i suoi giornali, lungo 16 metri e largo altrettanto, ma soprattutto alto 7 metri, così da potervi impilare fino al soffitto gli oltre 5.000 scatoloni contenenti la preziosa raccolta.
Purtroppo il magazzino adibito a emeroteca aveva un costo di tutto rispetto, 250.000 euro, e il mutuo una rata mensile in proporzione, 1.550 euro. Che Borellini non riesce più a pagare, dal momento che è finito in cassa integrazione e lultimo sussidio di 850 euro lha percepito lo scorso novembre: «Avrebbero dovuto versarmelo sino a dicembre 2012, ma pare che i soldi siano finiti». Risultato: gli tocca vendere limmobile. Questo sarebbe il meno: «E la mia collezione dove la metto? Se qualcuno - scuola, fondazione, ente, biblioteca, museo - è interessato, si faccia avanti. Sarebbe un crimine mandarla al macero, anzi, peggio: un errore», geme lo sventurato.
Vi starete chiedendo per quale motivo una persona assennata decida di rovinarsi con un hobby tanto bizzarro. Il motivo cè: Borellini dal 1993 è giornalista professionista. Per carità, la circostanza apparirà irrilevante persino alla maggioranza dei suoi colleghi, che i giornali si limitano a riempirli, evitando accuratamente di leggerli, e quindi figurarsi se a loro verrebbe mai in mente di conservarli per 30 e passa anni. Ma Borellini è un giornalista sui generis, che ha dovuto buttare via due Burberry color panna, e ripiegare sui giacconi Fay color antracite, a causa dellalone nero prodotto sulla manica e sulla tasca dallinchiostro del fascio di quotidiani che tiene sotto il braccio a tutte le ore del giorno e della notte.
Figlio unico di un ingegnere della Montedison e di una farmacista che per paura di perderlo andò a partorirlo a Zurigo («come Mina, allora andava di moda farlo in Svizzera, mamma aveva già 40 anni e si sentiva più garantita dagli ostetrici elvetici»), oggi orfano di entrambi, il collezionista di giornali cominciò la carriera allArena, dove la Luiss di Roma laveva mandato per uno stage dopo il diploma in scienze della comunicazione di massa. Otto anni da redattore. Tornato nella capitale, fu scelto da Rodolfo Brancoli per curare il sito internet dei Democratici di Romano Prodi. Quando il partito confluì nella Margherita, lo mandarono allufficio stampa del Senato in groppa, e in quota, allasinello. «Il capogruppo Willer Bordon mi disse: Ho a disposizione solo 500.000 lire di rimborso spese. Fa niente, risposi, accetto lo stesso. Dopo tre mesi mi fece un contratto: Sei bravo. Rimasi lì cinque anni. Poi Bordon mi chiese di diventare il suo addetto stampa. Accettai. Fu un errore: caduto in disgrazia lui, ero morto anchio». Morto mica tanto, se alla fine riuscì a diventare il portavoce dellex ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto.
Cominciamo dalla malattia. Come vogliamo chiamarla? Giornalite?
«Stampite. Credo dessermela presa da bambino nella tipografia del Messaggero, dove andammo in visita con la scuola elementare. Un tipografo sfornò dalla linotype una riga di piombo col mio nome e cognome e me la mise in mano ancora calda. Per anni lho usata come timbro».
Imprinting.
«Alle medie i miei compagni compravano le figurine Panini, io Messaggero e Corriere, che a Ronciglione era solo quello dello Sport».
La Luiss fu lo sbocco inevitabile.
«No, ci arrivai per caso. Per far contenta mamma facevo finta di frequentare la facoltà di farmacia e invece andavo ad ascoltare le lezioni a scienze politiche. Seguii tutto il corso di Giorgio Galli sulla storia dei partiti. Il resto del mio tempo lo passavo allascolto di Radio Radicale. Alla fine avevo dato appena due esami, igiene e anatomia. Nel 1988 un mio amico giunto alla Luiss per un master in scienze bancarie scoprì che esisteva un corso per giornalisti. Versò 50.000 lire e miscrisse alla prova di selezione che si svolgeva tre giorni dopo. Numero chiuso, solo 40 posti. Io non volevo partecipare, pensavo che servisse come minimo una raccomandazione di Giulio Andreotti. Scommettiamo le 50.000 lire che ti prendono?, insistette lui. Adesso è un famoso banchiere. Non sono mai riuscito a restituirgli quei soldi. Lesame sarebbe tutto da raccontare».
Racconti.
«Un contegnoso Alberto Sensini, che fu il primo direttore del Tg2, era il capo della commissione, composta da due magistrati e altri baroni. Letto il compito scritto, serano fatti lidea che lavessi copiato. Decisero di torchiarmi allorale. Che quotidiano legge di solito?. Beh, normalmente ne leggo 9. Aaahhh, bene. Ci parli di quelli che ha letto stamattina. Partii a razzo. Arrivato a una notizia del Sole 24 Ore che riguardava il Brasile, dissi: questa la approfondirò poi col Corriere, che ha in Gian Giacomo Foà il miglior inviato italiano in Sudamerica. A quel punto Sensini scattò in piedi, si protese verso di me, mi afferrò un braccio e ringhiò: Adesso lei ci dice chi è, che cosa è venuto a fare qui, chi lha mandata. Balbettai: non sono nessuno, mi ha iscritto un amico. Fu un interrogatorio, più che uninterrogazione. Pensavano che mi trovassi lì per smascherare i raccomandati».
Cioè?
«Sei giornalista, vuoi far entrare tuo figlio in una redazione, però non ti va che si venga a sapere della spintarella per la sua assunzione. Allora lo iscrivi alla Luiss, che alla fine lo manda per uno stage proprio nel giornale dove hai agganci. Dalle mie parti si chiama raccomandazione de rinterzo. Come nel gioco di sponda a biliardo: vai in buca facendo finta di tirare da unaltra parte. Mi presero. E al corso divenni il cocco di Sensini».
Ma perché ha cominciato a collezionare i quotidiani?
«Perché a un certo punto ho capito che i giornali di carta non ci sarebbero più stati. Negli archivi, intendo. Infatti è andata così: oggi sono tutti digitalizzati. Solo che io lo pensavo nel 1980».
Le sue collezioni le ha fatte rilegare?
«Mai e poi mai! I giornali non si possono violentare, neppure con un punto metallico. Solo copie ben distese, suddivise per giorno. Restano in casa due mesi. Poi Cornelia Mantu, la mia colf rumena di 60 anni, le inscatola e le porta nel magazzino, che dista un chilometro dallabitazione. Può avvelenarmi col cibo, ma non sbagliarmi larchiviazione. Quando abitavo a Verona, ogni 60 giorni arrivava Sergio Ortensi, il magazziniere della farmacia di mia madre, caricava i giornali sul furgone e li trasferiva a Ronciglione».
Cè un risvolto psichiatrico, temo.
«Ho cacciato quattro morose, due in malo modo, perché interferivano in questa mia passione. Sento di essere predestinato a vivere da solo. Lo so da quando avevo 7-8 anni. Sto bene soltanto in compagnia dei miei giornali. Non sono un asociale, questo no, anzi mi trovo benissimo in contesti lavorativi o ludici, con tanta gente. Ma poi, a casa, devo avere il letto, la poltrona e i divani a mia disposizione per leggere, leggere, leggere. Quintali di quotidiani. Una droga? Forse. Dovrei disintossicarmi».
Mi sa che è arrivato il momento.
«Quando vado a trovare qualche coppia di amici che magari hanno un paio di bambini, mi dico sempre: ammazza che lavoro! È un lavoro avere moglie e figli. Se ho potuto far bene il mio mestiere, è perché sono sempre stato libero da impegni di famiglia. Leggo tutto, vedo tutto». (Mi porta in una stanza dello studio di campagna dove una parete è occupata da 32 monitor). «Seguo 32 televisioni contemporaneamente, una sola delle quali con laudio attivato. Appena su uno schermo appare unimmagine interessante, alzo il volume».
Ha seguito il consiglio di Indro Montanelli: «Per fare bene il giornalista bisogna essere scapolo, orfano e bastardo».
«Io bastardo non lo sono».
Lasci giudicare agli altri.
«Se fossi bastardo, non subirei quello che sto subendo».
Che cosa sta subendo?
«Avevo offerto a un neolaureato privo di soldi la possibilità di comprare a rate la farmacia avuta in eredità da mia madre. Pensavo così daver garantito il suo futuro e anche il mio. Non è andata così. Oggi questo socio, a distanza di due anni dalla morte di mamma, mi ha cacciato ricorrendo al giudice, perché le società che gestiscono farmacie possono essere composte solo da farmacisti e io non sono farmacista. Perciò non ho più un reddito, mentre lui incamera tutti gli introiti. Resto solo creditore della società per il 70 per cento del valore che verrà stabilito da un altro giudice chissà quando. Non ho più un lavoro, sono in cassa integrazione come dipendente del Partito dei comunisti italiani. Campo grazie a colleghi, onorevoli e amici che hanno aderito al Club dei 30. Trenta benefattori che mi versano 100 euro mensili a testa».
Perché Diliberto assunse proprio lei?
«Cercava un addetto stampa. Una sera al ristorante Settimio allArancio di Roma incrociò Maria Teresa Meli e Francesco Verderami del Corriere, che gli diedero il mio numero di cellulare. Mi telefonò: Sono lonorevole Diliberto. Risposi: sì, vabbè, e io so Giulio Cesare, vedi de anna a rompe li cojoni a quarcun artro. E chiusi la comunicazione. Lui rifece il numero. Siamo andati damore e daccordo dal febbraio 2007 al maggio 2011».
Come può un patito della nostra professione lavorare per un politico, che rappresenta lantigiornalismo?
«È il contrappasso di una vita».
La pagava bene, almeno?
«Sì, 3.500 euro netti al mese. Un giorno mi disse: Sono finiti i soldi. Lo so, replicai».
Poteva invocare larticolo 18.
«Non vale né per i partiti né per i sindacati».
E ora Diliberto di che campa?
«Ha la pensione da parlamentare e insegna diritto romano alla Sapienza di Roma. Poi per hobby, senza ricavarci un quattrino, sta compilando i nuovi codici, civile e penale, per la Cina. La dirigenza di Pechino non sapeva se ispirarsi al Common law britannico o al diritto romano. Una commissione andò in giro per il mondo a indagare. Giunta a Roma, scoprì che cera un ministro della Giustizia comunista esperto in diritto romano. Cinesi e russi adorano Diliberto, mentre Fausto Bertinotti non se lo inculano proprio (veristica iperbole romanesca per «non se lo filano», ndr)».
Lei andò con Diliberto a Cuba a prosternarsi davanti al vicepresidente José Ramón Machado Ventura.
«Viaggio fantastico! Peccato che Fidel Castro fosse ammalato: non poté riceverci».
Non sapeva che Cuba è la tomba della libera informazione?
«Il regime è molto più fru fru di quanto non appaia. Si sono addolciti pure loro».
In Siria foste ospiti di Bashar al-Assad, un macellaio. Non si vergogna?
«E perché? Ci andai per lavoro. Come a Mosca, dove Diliberto fu invitato da Gennady Zyuganov a tenere un comizio sulla piazza Rossa. Siccome il corrispondente dellAnsa voleva provocare una polemica con Bertinotti, lo depistammo inventando la notizia che Diliberto era pronto a portarsi in Italia la mummia di Lenin».
Durante lintervista che Vittorio Zincone fece a Diliberto per il Magazine del Corriere, lei cercò di suggerire al suo capo persino la risposta sul prezzo al litro del latte, facendo il segno «V» con due dita alle spalle del giornalista.
«È vero. Che figura barbina. Fra laltro il latte costava 1,50, non 2 euro.
Insomma, mi vuol dire che cosa cera di buono nel comunismo?
«La fede. È un valore. Credo».
(591. Continua)
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