Chissà perché le lacrime di un soldato sembrano ancor più disperate. La divisa blu, i capelli bianchi, l’incedere austero di chi le certezze deve infonderle, il piglio sicuro. Tutto questo frantumato in un attimo. Dopo una vita spesa sull’«attenti». Da servitore. «Se non fossi un uomo di Stato mi farei giustizia con le mie mani».
Il pianto del capitano di vascello Giovanni Gumiero, il nuovo comandante dei cacciamine italiano di stanza a La Spezia, è però composto. Come impone la sua storia, la sua educazione, l’addestramento. Forse per questo le lacrime che scivolano tra le sue manone serrate forti forti al volto, sembrano ancor più pesanti. Di fronte agli estranei si trattiene, lo sguardo prova ancora una volta ad essere fiero. Nonostante Giovanna, quella moglie tenera e innamorata, sempre pronta a seguirlo, non ci sia più. Massacrata. E non in una missione di guerra. Lui era fuori, lei lo aspettava dolce e innamorata, come il primo giorno di una storia cominciata quando lui ancora veniva spedito in missione in Irak.
Un militare di professione sa quanto il futuro possa essere appeso a un filo. Ma di solito considera il proprio. O quello dei suoi uomini, almeno loro allenati per sopravvivere. La fine è messa in conto.
Giovanna invece tornava semplicemente, banalmente, a casa dopo un pomeriggio di shopping romano. È morta a pochi metri dal portone di casa. Rapinata, picchiata con belluina ferocia da un altro omone, lui senza divisa, senza dignità, senza onore. Un romeno, ibrido come questa nuova etnia di disperati, che non si capisce se sono zingari ladri, rapinatori camuffati da mendicanti, truffatori telematici o vagabondi ubriaconi. Nicolae Mailat, 24 anni portati da quarantenne, dopo una giornata alcolica l’ha massacrata per rubarle la borsetta.
Tor di Quinto non è una periferia sudamericana. Ma un po’ di questi tempi le somiglia. Un’enclave, quartieri residenziali di gente per bene, circondati da boschetti e prati incolti oggi trasformati in «accampamenti nemici». Bidonville, favelas di fantasmi senza nome pronti a materializzarsi all’improvviso per far male. Destini inversi: da una parte le regole, il lavoro, la messa della domenica, il mondo normale; dall’altra la miseria, l’illegalità, la violenza spicciola dei diseredati.
Il soldato Giovanni Gumiero lo sapeva. Percepiva la tensione, le paure, le angosce di un vivere quotidiano a cui dovrebbero forse essere applicate quelle strategie militari che lui insegna ai suoi marinai. Aveva paura lui, di lasciare quella moglie bella, minuta e indifesa, in un quartiere «dimenticato». Dove persino i lampioni in strada sono stranamente spenti, dove il capolinea dell’autobus si ferma a settecento metri dalle prime case.
«Giovanna è sempre stata una donna forte - racconta adesso lui puntando gli occhi, come un bimbo, verso un futuro smarrito - Eppure qualche mese fa mi ha detto: “Non riconosco più questa città. Te la ricordi Roma quando ci siamo conosciuti?. Ora si fanno brutti incontri, ho paura. Portami via di qui”».
Era tutto fatto, ormai, mancava un attimo. Lui, da settembre, già si era trasferito a La Spezia, stava preparando la nuova casa, lei fino a qualche settimana fa era lì. Nella capitale era tornata per sbrigare le ultime faccende, per chiudere quella casa in cui il giorno della pensione sarebbero tornati a vivere. Non avevano figli. Forse una scelta, forse il destino. «Una coppia da fare invidia», raccontano gli amici. «Vivevano l’uno per l’altro, erano molto uniti. Stavano insieme appena potevano».
Ma non è stato così mercoledì sera. È tormentato da un rimorso il capitano di vascello Gumiero. «Era così felice Giovanna quando le ho detto che saremmo andati a La Spezia, quasi non ci credeva. Aveva viaggiato tanto per via del mio lavoro... Io quella sera avrei dovuto essere lì con lei, dovevo proteggerla».
Per quarantott’ore Giovanni Gumiero è rimasto silente, con una preghiera sola nell’animo, accanto a quella sua bella moglie stretta nell’oblio della morte. Ha sperato, invocato il miracolo, ha pianto gridando un dolore muto. Poi alla fine ha parlato. Urlando ancora una volta senza far rumore davanti a un imbarazzato sindaco. «In una città civile queste cose non possono succedere. Mi prometta che sia l’ultima volta». Dietro il vetro della rianimazione dell’ospedale Sant’Andrea la sua Giovanna era ormai clinicamente morta. Walter Veltroni non ha potuto far altro che scuotere il capo. E provare a promettere. La signora rapinata e uccisa dal rom è diventata così il simbolo di una Roma indifesa, una città nella paura, una città che chiede sicurezza.
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